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    Si chiude la settimana del Bif&st 2015. Nel 2016 omaggio a Mastroianni

    La sesta edizione del Bif&st si è appena conclusa. E’ tempo di bilanci, soprattutto in vista della conclusione del mandato di Nichi Vendola alla regione Puglia, ma c’è anche spazio per qualche anticipazione sulle linee programmatiche di massima della prossima  edizione, la settima (e mezza) del festival.
    Ed una cosa è certa: il festival si farà, si svolgerà da sabato 2 a sabato 9 aprile 2016 e verrà dedicato a Marcello Mastroianni.  Proprio nel 2016 infatti ricorreranno i 20 anni dalla sua scomparsa (Parigi, 19 dicembre 1996); per l’occasione la manifestazione sarà fondamentalmente orientata, nelle sue diverse componenti, ad illustrare lʼarte, il talento, il lavoro degli attori e delle attrici.
    Saranno otto grandi attori e attrici i protagonisti delle Lezioni di cinema del 2016 che, seguitissime, sono state tenute questʼanno da otto grandi registi (Jean-Jacques Annaud, Costa- Gavras, Nanni Moretti, Alan Parker, Edgar Reitz, Ettore Scola, Margarethe von Trotta, Andrzej Wajda).

    Attori e attrici di grande talento e notorietà, provenienti da diversi Paesi (uno solo sarà italiano), che interverranno dopo la proiezione mattutina al Teatro Petruzzelli di un film da loro interpretato e ai quali verrà conferito il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence.
    “Il Bif&st, sempre più radicato sul territorio e sempre più apprezzato dal pubblico e dagli addetti ai lavori, – fanno sapere dalla direzione del festival – va man mano affinando nel corso degli anni, con una serie di progressivi aggiustamenti, la propria già precisa identità culturale”.

    Tra le novità la sezione Panorama del cinema al posto della consueta Panorama internazionale, un focus  sul cinema di un Paese europeo che includerà 12 film selezionati fra la produzione più recente, inedita in Italia alle date del festival.

    Immutata resterà la sezione serale delle Anteprime internazionali al Teatro Petruzzelli con la presentazione dal 3 al 9 aprile di 7 film di tutto il mondo – e in particolare degli Stati Uniti – di grande qualità e di forte impatto spettacolare, con particolare attenzione, nel corso della selezione, alle interpretazioni degli attori, alcuni dei quali verranno invitati al Bif&st.

    Per quanto riguarda la sezione denominata ItaliaFilmFest, la serata di consegna dei premi riservati al cinema italiano coinciderà con la serata inaugurale del 2 aprile e non più con quella finale. La giuria stabile composta da autorevoli critici italiani attribuirà i consueti riconoscimenti al miglior regista, produttore, soggettista, sceneggiatore, attore e attrice protagonisti, attore e attrice non protagonisti, compositore, direttore della fotografia, montatore, scenografo, costumista e autore dellʼopera prima. I film premiati – e solo quelli – verranno presentati al Multicinema Galleria nelle giornate successive alla consegna dei premi.

    Dopo la positiva esperienza dei quattro laboratori svoltisi nel 2015 – dedicati ai costumisti e alla scenografia per il cinema, la televisione, il teatro – verranno ulteriormente incrementati i Laboratori che nel 2016 saranno dedicati alla formazione e alla informazione degli attori. Utilizzando appropriate location, e in particolare i palcoscenici di alcuni teatri di Bari e delle città vicine, quali il Teatro Van Westerhout di Mola di Bari, verranno organizzati seminari per “allievi”, selezionati sulla base dei loro C.V., condotti da affermati registi, attori e attrici, in collaborazione con la Scuola di Cinema Gian Maria Volonté di Roma e con alcuni prestigiosi casting directors.

    Ed è già in preparazione il grande tributo a Mastroianni che,  potrebbe essere ospitato dal rinnovato Teatro Kursaal di Bari. La retrospettiva comprenderà 50 film rigorosamente selezionati fra i 144 da lui interpretati (ma in tre di essi non è accreditato) che verranno presentati con un fitta programmazione nelle otto giornate del Bif&st, ospitando – ogni volta che sarà possibile – lʼintroduzione ad un suo film ad opera di un regista o un/a collega che col grande attore ha lavorato. Parte dei film della retrospettiva sarà inclusa nella sezione “Aspettando il Bif&st” che – se possibile – si svolgerà nelle settimane precedenti.
    Verrà inoltre programmata una rassegna di materiali audiovisivi di documentazione su Mastroianni raccolti da diverse fonti, in particolare da RAI Teche e Archivio Luce, oltre ai materiali extra dei DVD messi a disposizione dai loro editori.
    Sarà allestita una Mostra fotografica (foto di scena e scatti estemporanei) dedicata aMastroianni con la collaborazione dellʼArchivio fotografico dellʼIstituto Luce, della Cineteca Nazionale, della Mediateca Regionale Pugliese e di altre istituzioni.
    Eʼ infine previsto a fine festival un incontro internazionale sullʼarte attoriale di Mastroianni con la partecipazione di produttori, registi, sceneggiatori e attori coinvolti (o anche non) nei suoi film.

    Il Festival Marcello Mastroianni sarà inaugurato nel pomeriggio di sabato 2 aprile 2016 al Teatro Petruzzelli con la proiezione del film Mi ricordo, sì io mi ricordo (1997, nellʼedizione integrale di 199 minuti) alla presenza della regista Anna Maria Tatò, che di Mastroianni fu per moltissimi anni la compagna. Ad aprire il Festival sarà il presidente del Bif&st, Ettore Scola, che diresse Mastroianni in nove film (e in un episodio) e che fu legato al grande attore da una profonda amicizia personale.
    Nel 1988 proprio Mastroianni fu insignito a Bari del Premio Fellini in occasione del festival EuropaCinema (ideato e diretto da Felice Laudadio) per il quale disegnò il manifesto e dove tenne, subito dopo quella di Sergio Leone, una memorabile Lezione di cinema seguita da oltre 1.200 persone in quella grande, bellissima sala liberty che si chiamava Cinema Oriente e che ormai da tempo, purtroppo, è stata trasformata in sala giochi.
    Il Premio Mastroianni per un giovane attore – che ogni anno viene assegnato dalla Mostra del Cinema – fu istituito nel 1997 da Laudadio, allora direttore della manifestazione veneziana, che a un anno dalla scomparsa di Marcello gli dedicò un tributo e il manifesto della Biennale Cinema.
    Il poster del Bif&st 2016 riproduce la bellissima immagine – opera del grande fotografo Pino Settanni – esposta sullʼimmensa vetrata che domina Largo Marcello Mastroianni a Villa Borghese dove sorge la Casa del Cinema di Roma, ideata e diretta da Laudadio che nel decennale della scomparsa (dal 12 al 21 ottobre 2006) dedicò allʼattore la vasta retrospettiva ora riproposta a Bari.

     

    I film in programma della retrospettiva 

    1. IL VOLO di Thodoros Angelopoulos, Francia-Grecia-Italia, 1986, 140ʼ
    2. LA NOTTE di Michelangelo Antonioni, 1961, Italia-Francia, 115ʼ
    3. VERSO SERA di Francesca Archibugi, Italia-Francia, 1990, 99ʼ
    4. ENRICO IV di Marco Bellocchio, Italia, 1984, 95ʼ
    5. PECCATO CHE SIA UNA CANAGLIA di Alessandro Blasetti, Italia, 1954, 95ʼ
    6. IL BELLʼANTONIO di Mauro Bolognini, Italia-Francia, 1960, 105ʼ
    7. LA PELLE di Liliana Cavani, Italia-Francia, 1981, 131ʼ
    8. LA DONNA DELLA DOMENICA di Luigi Comencini, Italia-Francia, 1975, 105ʼ
    9. GIORNI DʼAMORE di Giuseppe De Santis, Italia-Francia, 1954, 98ʼ
    10. I GIRASOLI di Vittorio De Sica, Italia-Francia-URSS, 1970, 107ʼ
    11. IERI, OGGI E DOMANI di Vittorio De Sica, Italia-Francia, 1963, 118ʼ
    12. MATRIMONIO ALLʼITALIANA di Vittorio De Sica, Francia-Italia, 1964, 102ʼ
    13. AMANTI di Vittorio De Sica, Italia-Francia, 1968, 88ʼ
    14. SOSTIENE PEREIRA di Roberto Faenza, Italia-Francia-Portogallo, 1995, 104ʼ
    15. LA DOLCE VITA di Federico Fellini, Italia-Francia, 1960, 174ʼ
    16. OTTO E MEZZO di Federico Fellini, Italia-Francia, 1963, 138ʼ
    17. LA CITTAʼ DELLE DONNE di Federico Fellini, Italia-Francia, 1979, 139ʼ
    18. GINGER E FRED di Federico Fellini, Italia-Francia-Germania, 1986, 125ʼ
    19. INTERVISTA di Federico Fellini, Italia-Francia, 1987, 108ʼ
    20. LA CAGNA di Marco Ferreri, Francia-Italia, 1972, 100ʼ
    21. LA GRANDE ABBUFFATA di Marco Ferreri, Italia-Francia, 1973, 130ʼ
    22. NON TOCCARE LA DONNA BIANCA di Marco Ferreri, Italia-Francia, 1974, 108ʼ
    23. CIAO MASCHIO di Marco Ferreri, Italia-Francia, 1978, 113ʼ
    24. STORIA DI PIERA di Marco Ferreri, Italia-Francia-Germania, 1983, 107ʼ
    25. DIVORZIO ALLʼITALIANA di Pietro Germi, Italia, 1961, 105ʼ
    26. OCI CIORNIE di Nikita Mikhalkov, Italia-URSS, 1987, 117ʼ
    27. I SOLITI IGNOTI di Mario Monicelli, Italia, 1958, 106ʼ
    28. I COMPAGNI di Mario Monicelli, Italia-Francia, 1963, 130ʼ
    29. CASANOVA 70 di Mario Monicelli, Italia-Francia, 1965, 107ʼ
    30. LʼASSASSINO di Elio Petri, Italia-Francia, 1961, 97ʼ
    31. LA DECIMA VITTIMA di Elio Petri, Italia-Francia, 1965, 92ʼ
    32. TODO MODO di Elio Petri, Italia-Francia, 1976, 125ʼ
    33. FANTASMI A ROMA di Antonio Pietrangeli, Italia, 1961, 105ʼ
    34. CHE? di Roman Polanski, Italia-Francia-Germania, 1972, 114ʼ
    35. DRAMMA DELLA GELOSIA di Ettore Scola, Italia-Spagna, 1970, 107ʼ
    36. PERMETTE? ROCCO PAPALEO di Ettore Scola, Italia-Francia, 1971, 120ʼ
    37. CʼERAVAMO TANTO AMATI di Ettore Scola, Italia, 1974, 124ʼ
    38. UNA GIORNATA PARTICOLARE di Ettore Scola, Italia-Francia, 1977, 110ʼ
    39. LA TERRAZZA di Ettore Scola, Italia-Francia, 1980, 150ʼ
    40. IL MONDO NUOVO di Ettore Scola, Italia-Francia,1981, 150ʼ
    41. MACCHERONI di Ettore Scola, Italia 1985, 105ʼ
    42. CHE ORA È di Ettore Scola, Italia-Francia, 1989, 97ʼ
    43. SPLENDOR di Ettore Scola, Italia-Francia, 1989, 110ʼ
    44. ALLONSANFÀN di Paolo e Vittorio Taviani, Italia, 1974, 115ʼ
    45. STANNO TUTTI BENE di Giuseppe Tornatore, Italia-Francia, 1990, 118ʼ
    46. LE NOTTI BIANCHE di Luchino Visconti, Italia-Francia, 1956, 107ʼ
    47. LO STRANIERO di Luchino Visconti, Italia-Francia-Algeria, 1967, 104ʼ
    48. CRONACA FAMILIARE di Valerio Zurlini, Italia, 1962, 115ʼ

    Eventi speciali

    49. LE MANI SPORCHE di Elio Petri, Italia, TV, 1978, 234ʼ (RAI Teche)
    50. MARCELLO MASTROIANNI. MI RICORDO, SÌ IO MI RICORDO di Anna Maria Tatò, Italia
    1997, 199ʼ

    Materiali di documentazione RAI Teche

    1. MARCELLO MASTROIANNI, UN CASANOVA DEI NOSTRI TEMPI a cura di Carlo Tuzii, in
    Primo piano: n. 34, Italia, 1965, 50ʼ
    2. MARCELLO MASTROIANNI. PROFESSIONE: ATTORE di Luigi Filippo DʼAmico, Italia,
    1984, 185ʼ
    3. LO SPETTACOLO IN CONFIDENZA. MARCELLO MASTROIANNI di Anna Maria Mori,
    Italia, 1991, 31ʼ
    4. CIAO MARCELLO. RICORDO DI MASTROIANNI di Marco Giusti, Natalia Loppi, Paolo
    Luciani, Italia, 1996, 46ʼ
    5. MARCELLO MASTROIANNI. IL FASCINO DELLA NORMALITÀ di Enzo Biagi, Italia, 1996,
    51ʼ
    6. TEMPO NOVECENTO. IL BEL MARCELLO di Elisabetta Stazi, Cesare Zavattini, Italia,
    1997, 31ʼ
    7. CERIMONIA FUNEBRE PER MARCELLO MASTROIANNI – CAMPIDOGLIO, Roma,
    trasmessa il 22 dicembre 1996, 38ʼ
    8. RACCONTI DI VITA. MARCELLO MASTROIANNI di Giovanni Anversa, Vanna Carafoli,
    Italia, 2000, 86ʼ
    9. IL FASCINO DISCRETO DELLA NORMALITAʼ di Daniela Piccioni e Sandro Lai, Italia,
    2006, 60ʼ
    10. LE ULTIME LUNE di Furio Bordon, Italia, 1997, 85ʼ (riprese teatrali, no RAI Teche)

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    Edgar Reitz al Bif&st: Il cinema ‘salva’ gli uomini

    E’ probabilmente il film più lungo della storia del cinema, con quasi settanta ore di girato e una lavorazione durata nel complesso oltre trent’anni, da quando il regista iniziò a scriverlo nel 1979 al 2013, anno di uscita dell’ultimo capitolo. E’ Heimat (che vuol dire patria) la serie di film – diventati un cult –  nata con l’intento di ricostruire la storia del Novecento tedesco attraverso le vicende della famiglia Simon e della sua genesi parla oggi Edgar Reitz, protagonista al Bif&st di una delle consuete lezioni di cinema al Petruzzelli di Bari.
    “Non avevamo modelli di riferimento, la generazione del cinema nazista non ci forniva nessun esempio. La mia prima ispirazione fu la nouvelle vague, ma il mio secondo grande modello fu il neorealismo italiano che ha caratterizzato la mia opera fino ad oggi. – racconta il regista che Bari premia con un Fipresci Platinum AwardConoscevo i film di De Sica a memoria”.
    E c’è spazio anche per ricordare L’altra Heimat – Cronaca di un sogno, l’ultimo capitolo della saga, l’antefatto di ciò che viene raccontato nei precedenti episodi (Heimat, Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza, Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale), che dopo la presentazione nel 2013 alla Mostra del Cinema di Venezia sbarca in sala per due giorni, il 31 marzo e il 1 aprile.
    Ma prima di Heimat, Reitz fu anche pioniere dell’avanguardia tedesca, un grande sperimentatore del linguaggio cinematografico come nel caso del corto Geschwindigkeit Kino eins: ventitre storie che riflettevano sul concetto di velocità, presentate come le portate di un menu e proiettate all’interno di un bar. “Ci entusiasmava il cinema di genere così creammo dei piccoli episodi, ognuno corrispondente ad un genere e ad uno stile diversi. – ricorda – Nacquero 23 film di lunghezza differente, ma il problema era come poterli far arrivare alla gente: fu allora che conoscemmo il proprietario di un bar con cui organizzammo un mega progetto. Pensammo a un menù di diverse storie ed ogni spettatore avrebbe potuto scegliere dal menù l’episodio da proiettare. Fu eccitante trasformare il bar in cinema e viceversa”.
    E pensare che il destino di Reitz sarebbe stato quello di fare l’ingegnere: “Ci provai, poi però mi iscrissi a un corso di teatro e storia dell’arte e per molti anni mio padre continuò a credere che stessi studiando qualcosa di tecnico”.
    Molto tempo dopo sarebbe arrivato Ora zero, il suo omaggio al neorealismo italiano, la visione del mondo “dalla prospettiva di un dodicenne in bicicletta, un’ immagine che mi ricordava De Sica”.
    Erano gli anni del vuoto politico, non c’erano disposizioni, né leggi, non c’erano i vecchi governanti e neanche i nuovi: “Pensate come potesse essere paradisiaco tutto questo per un ragazzino di dodici anni”.
    Ed era l’epoca zero quando Reitz iniziò a pensare a Heimat: tutto nacque da una bufera di neve che lo bloccò in casa. “Per sfuggire all’atmosfera natalizia che si avvicinava chiesi a dei miei amici di prestarmi il loro appartamento a Nord della Germania. Non era un momento facile, ‘Il sarto di Ulm’ era stato stroncato dalla critica e io iniziavo a chiedermi quale sarebbe stato il mio destino, ero figlio di un orologiaio ma facevo il regista, mi ponevo delle domande e volevo fare chiarezza. Rimasi bloccato in quella casa dalla neve e fu così che cominciai a scrivere la storia della mia famiglia”.
    Erano appena cento pagine: Heimat non era nato per diventare un film, doveva essere semplicemente un racconto ma le cose cambiarono quando Reitz mostrò il manoscritto a un redattore al Festival di Berlino, che gli disse: “C’è del buon materiale per fare qualcosa, ma che ci avrei impiegato almeno tre anni. Non avrei mai immaginato che mi ce ne sarebbero voluti almeno trenta”.

    Il primo Heimat (inizialmente tre episodi che sarebbero alla fine diventati undici) fu un successo enorme con dieci milioni di spettatori in prima serata sulla tv tedesca.
    “Non è il ritratto diretto della mia famiglia ma c’erano ovviamente dei tratti caratteriali che la evocavano; – ci tiene a precisare Reitz – ho creato una mescolanza di tratti prendendo spunto da miei colleghi, amici, parenti o insegnanti e trasferendoli in figure che si ritrovano a vivere però in contesti diversi. C’era una grande quantità di  materiale autobiografico e per questo era necessario prendere una distanza”.

    Lo strumento per raccontare tutto questo? Il tempo, e non quello finito: “Parlo della durata di un tempo in cui ci si muove e che viene misurato attraverso le immagini e i sentimenti”.
    Tutto passa ma non l’incanto del cinema: “Un film – dice – mette nelle condizioni di salvare gli uomini e renderli immortali. Le arti in genere hanno a che fare con la salvezza e il mantenimento di ciò che invece nella vita vera muore. Il cinema riesce a bloccare gli esseri umani nell’immortalità”.
    E sulla possibilità di un quinto Heimat, Reitz confessa: “Da trent’anni tutti i miei film si chiamano Heimat, e se anche il prossimo si intitolasse così nessuno si stupirebbe. E’ come un tetto, è un racconto epico che comprende tutti i temi possibili, la vita, l’amore, la morte…  Io ho cercato di vivere sotto questo tetto, una specie di casa in cui però non hai bisogno di chiudere le porte a chiave proprio come faceva mia nonna, che le lasciava aperte. Quando le chiesi se non avesse paura mi rispose: se chiudo a chiave la porta, arrivano i ladri”.

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    Bif&st 2015: Micaela Ramazzotti, barbarica Crudelia De Mon

    Cattiva, cinica, truccatissima e spietata. Strizzata in tailleur che ricordano Crudelia De Mon, compassata nell’incedere, anaffettiva nei rapporti con gli altri, glaciale come un “sofficino surgelato”, nerissima, scorretta all’occorrenza e determinata: “un traguardo conquistato faticosamente”, dirà nel corso del film. Micaela Ramazzotti si presenta così al Bif&st 2015, nel ruolo inedito dell’eroina vendicativa, dopo le tante donne rassicuranti interpretate fino ad ora: sono gli abiti di Anita , la crudele protagonista di Ho ucciso Napoleone (in sala dal 26 marzo), secondo film di Giorgia Farina, che in molti ricorderanno per il fortunato esordio Amiche da morire, .
    Anita è una manager brillante, è gelida, single, intelligente, veloce, pratica. Il suo unico obiettivo? La carriera. Colleziona un successo dopo l’altro, incamera informazioni con la precisione di una computer, è scaltra, sveglia e non sbaglia un colpo. Almeno fino a quando non si ritrova incinta del suo capo (sposato con una moglie e due figlie) e licenziata. Da qui partirà la sua vendetta dagli esiti decisamente sorprendenti, complice il collega Biagio, un imbranato avvocato con il quale Anita si aprirà al mondo in una lenta riconquista dell’umanità perduta.

    Un ruolo che “mi ha eccitata da impazzire”, racconta la Ramazzotti. “Ho sempre interpretato donne disponibili e accomodanti al mondo maschile, questa volta no. Mi sono lasciata andare fisicamente e mentalmente al mondo di Anita, un mondo visivo e narrativo completamente nuovo per me, che mi ha fatto pensare alle dark comedy americane o a certi film alla Tarantino”.
    Già, perché Ho ucciso Napoleone è irriverente e pulp, feroce e comico, coerente almeno nella sua prima parte, con un gruppo di attori perfettamente in parte e nei panni di personaggi doppi, che non sono ciò che potrebbe sembrare ad un primo sguardo; improbabile invece la svolta thriller e il brusco cambio di registro che ne seguirà.
    Come in Amiche da morire a farla da padrone dettandone ritmi e stile è l’universo femminile, un microcosmo di donne guerriere (Iaia Forte, Elena Sofia Ricci, Thony, Pamela Villoresi) costrette a tirar fuori grinta e unghie in una società ancorata a un retaggio maschilista e superficiale, che le vorrebbe o “completamente virtuose o totalmente fallimentari”. E chissà che in fondo Anita stessa non sia il frutto di queste storture. “Ho voluto rappresentare una donna artefice per la prima volta del proprio fallimento, – spiega la regista – ma che decide di rimboccarsi le maniche. E’ un personaggio contemporaneo in bilico tra chiaro e scuro”. Barbarico e vendicativo più di un uomo, se è vero come diceva Nietzsche che “nella vendetta e nell’amore la donna è più barbarica dell’uomo”.

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    Bif&st 2015: Scola, il cinema? Un bene comune

    Da ragazzo di bottega pensava che il suo destino sarebbe stato fare il calzolaio o il falegname, quando vide davanti ai suoi occhi nascere un paio di scarpe subì una fascinazione che lo avrebbe portato a diventare sì, un artigiano, ma della celluloide. Oggi quel ‘garzone’ ha ottantaquattro anni, si chiama Ettore Scola e nel frattempo è diventato un grande narratore.
    Prima battutista nella redazione del ‘Marc’Aurelio’, poi sceneggiatore di alcuni dei più grandi capolavori del nostro cinema (da Il sorpasso a I mostri) e infine regista soprattutto di penna (C’eravamo tanto amati, Una giornata particolare, La famiglia), Scola non perde occasione per raccontare e ricordare quel cinema. E lo fa anche in occasione del Bif&st di cui è presidente e che questa volta lo ospita con una Lezione di Cinema al Teatro Petruzzelli.
    Una masterclass in cui c’è spazio per la memoria, per l’amarezza ed anche per un accorato appello ai giovani, la componente più importante di questo festival: “Dovete darvi da fare, avete curiosità ed energia, siete giovani e avete delle responsabilità. È ora che questo paese venga raddrizzato e cambiato con le idee. Chi volete che lo faccia? Certo non Renzi. – dice – Siete nati un paese che ha bisogno del vostro aiuto, siete l’unica speranza che abbiamo perché io non ne ho né in Tsipras né nei nostri politici. Manca un progetto comune. Noi lo abbiamo cambiato e venivamo da venti anni di fascismo, oggi nessuno vi chiede di armarvi di mitra e andare in montagna come fecero i nostri padri, non ce n’è bisogno, c’è’ bisogno invece di idee e entusiasmo. Sono felice che vi piaccia il cinema, va bene, ma spero che tra voi ci sia anche qualche calzolaio o falegname, qualcuno che voglia bene a questo paese”. Che è diventato “difficile da amare”.

    Come sarebbe stata la nostra vita senza cinema?
    Majakovskij diceva: “Per molti un film è uno spettacolo, per me una concezione di vita”. L’invenzione del cinema fu accolta tra la diffidenza generale, anche qui in Italia. Cosa saremmo senza il cinema? Difficile dirlo, ma credo ci mancherebbe una fonte di idee, di dubbi, l’umanità stessa sarebbe un vuoto. Il cinema come la letteratura resta un bene comune e necessario soprattutto ai giovani. È questa la sua grande forza, rappresentare idee che il pubblico già ha in parte e affiancarne delle altre.

    Spesso hai parlato bene della fase in cui facevi il ‘negro’ delle sceneggiatura. Ci racconti cosa ha significato per te?
    Era un fatto di ruolo. C’erano tanti comici e tutti quei film venivano scritti da due geni della scrittura, Metz e Marchesi, che buttavano giù le sceneggiature in poco tempo e poi le passavano ai ‘negretti’, cioè ai giovani nelle redazioni dei giornali umoristici ai quali affidavano i copioni per aggiungere gag e battute. Ho cominciato così, da ‘negro’, scrivendo idiozie; mi sarei fatto volentieri un biglietto da visita: ‘Ettore Scola, negro’.
    Ricordo quando andai a casa di Totò: Metz e Marchesi gli lessero una battuta e lui rise. Gli dissero: “E’ di Scola”. La battuta era quella di “Totò Tarzan”: “Io Tarzan, tu Cita, lei bona’. Quella risata fu per me l’ Oscar che poi non avrei mai avuto.

    A un certo punto della tua carriera avresti voluto copiare Steno. Copiare è in qualche modo la possibilità di affinare delle tecniche…
    Copiare è un arte. Raffaello copiò da Michelangelo e dal Perugino. Copiare è importante, perché nessuno sarebbe esistito senza gli altri. Steno era caporedattore al ‘Marc’Aurelio’, decideva su disegni e rubriche, faceva parte di quei modelli da seguire.
    Non ci sono consigli da dare ai giovani che spesso mi chiedono cosa fare, ci sono solo situazioni più o meno favorevoli.
    La mia generazione ha avuto la fortuna di avere dei modelli, gente che ammiravamo e stimavamo, e Steno era uno di loro; i giovani di oggi invece non hanno modelli a cui potersi ispirare.
    All’epoca inoltre ci spingeva un paese e un contesto appena uscito dalla guerra, dal nazismo, un paese che amavamo. Ora è dura dire a un giovane autore di amare l’Italia. Come si fa a dire a un ragazzo di amare il proprio paese?
    Allora c’erano dei colpevoli ben precisi e identificabili, c’erano delle macerie ma sapevamo chi erano i responsabili; adesso non è facile individuare dei colpevoli e diventa difficile per un giovane interpretare la realtà. Perché devi sapere non solo dove vuoi andare ma anche cosa evitare e con chi prendertela.
    Esistono solo delle responsabilità diffuse e collettive di chi non ha saputo interpretare un contesto che andava peggiorando. Come si fa a scrivere un libro o girare un film se non hai qualcuno da prendere di mira, da additare?
    Alle nuove generazioni manca un orizzonte oltre il quale spingere lo sguardo, noi ce l’avevamo; ognuno, il giornalista, lo scrittore, il calzolaio, sapeva nel suo piccolo che in qualche modo bisognava partecipare. Così ci si incontrava, si scambiavano idee e nascevano delle amicizie dove non contavano limiti di età o di livello artistico. Era un lavoro comune e avevamo voglia di fare qualcosa per un paese che amavamo.

    Hai collaborato alla scrittura di diversi film da “Il sorpasso” a “Un americano a Roma”. Ci regali un ricordo di quei set?
    Ero contento dei registi che mettevano in scena i miei copioni, mi piaceva vedere cosa diventavano con loro le mie sceneggiature. Pietrangeli ad esempio aveva una malinconia e uno spessore soltanto suoi, che apparteneva a lui e non alla sceneggiatura; Risi aveva una naturalezza e una leggerezza che gli ho sempre invidiato.
    Mi sarebbe piaciuto dirigere quei film, ma avrei fatto di sicuro peggio, perché non avrei avuto la loro stessa grazia.

    Alcuni tuoi film come “La terrazza” fecero arrabbiare alcuni compagni di partito…
    “La terrazza” raccontava di un gruppo di amici sulla cinquantina, che ogni sabato si incontra su una terrazza e fa un amaro bilancio della propria opera. Era un gruppo di intellettuali scontenti: un giornalista, uno sceneggiatore, un onorevole comunista, un attore e un produttore. Scelsi di raccontare la stessa serata da sei punti di vista differenti.
    Il problema fu che in molti si riconobbero nei protagonisti di quel film; Moravia, Paietta, Beniamino Placido, Scalfari, tutti si incazzarono parecchio, nonostante quei personaggi dovessero essere solo degli archetipi, dei ruoli.
    Era un film politico certo, ma lo sono tutti persino ‘Dumbo’, con la sua rappresentazione della politica della giungla. E’ impossibile prescindere da questa dimensione, perché la politica è vivere associati, è un dato di fatto che gli uomini che si incontrano fanno politica.

    Cosa non era piaciuto a Pertini invece?
    Pertini fu molto duro. Non aveva particolarmente apprezzato il personaggio interpretato da Gassman, un professore con un fratello fascista, che non prende mai posizione, non si espone e non ha neanche il coraggio di dichiararsi alla donna che ama. Si arrabbiò molto perché quell’uomo rappresentava l’italiano che non aveva scelto.

    Hai sempre detto di esserti annoiato a morte sui set. Cosa facevi?
    La noia maggiore era sul set degli altri, non vedevo l’ora di andar via.
    In generale ci sono dei tempi di attesa lunghissimi che all’epoca ognuno riempiva a modo suo; Gassman scriveva i suoi spettacoli, Jack Lemmon passava ore e ore a fare cruciverba, Manfredi era contentissimo perché ripeteva la parte, Mastroianni invece stava al telefono, aveva le tasche gonfie di gettoni perseguitato da questo bisogno di contatto continuo. Sordi si dedicava a dare fastidio a tutti e Troisi cantava canzoni tristi, come lo era lui.

    Avevi annunciato che non avresti fatto più film e poi ti sei smentito regalandoci “Che strano chiamarsi Federico”. Ne farai un altro?
    Avevo detto che non avrei fatto più film finché ci sarebbe stato Berlusconi, proprietario della Medusa, la casa di distribuzione del film che avrei dovuto realizzare. Ma non ero abituato a lavorare come un mecenate, e così scrissi una lettera ai giornali in cui dicevo che non avrei fatto più cinema. Quello su Federico, che feci otto anni dopo, non è un film, ma un biglietto, un album di ricordi per un amico.

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    Bif&st 2015. Costa Gavras, il cinema è politico

    Per lui “il cinema è politico, tutti i film lo sono”, è stato ispirato da Francesco Rosi, Ettore Scola, Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, ed oggi non esiterebbe a girare un film sull’Isis “a patto che ci sia una storia interessante per poter realizzare un’opera di ampio respiro”.
    Greco di nascita, nell’Arcadia utopica e tragica dell’immaginario collettivo, francese di adozione dopo essere stato costretto a trasferirsi in Francia perché di famiglia antimonarchica, Costa Gavras, ottantadue anni, è uno che il cinema lo ha attraversato con la lucidità dell’impegno civile e un occhio sempre attento alla realtà. E non senza suscitare polemiche, come successe nel 2002 per Amen, il film che denunciava le responsabilità della Chiesa Cattolica nell’eccidio nazista.
    È lui il protagonista della terza Lezione di Cinema al teatro Petruzzelli di Bari, un occasione per il Bif&st di ripercorrere alcuni dei momenti fondamentali del suo cammino artistico e umano.
    Un cinema, il suo, necessariamente politico, e per scelta: “C’è politica in tutti i film, è impossibile uscire da questa dimensione. – spiega – Perché politica non vuol dire solo esprimere una preferenza di voto, ma è relazione tra gli uomini, è rispettare ciò che l’uomo è e ciò che è stato”.

    Sei nato in Arcadia, il simbolo dell’utopia, il paese dell’immaginario e anche della tragedia. Si può dire che anche il tuo cinema è in qualche modo utopico e tragico?
    Sì, è la vita. Tutto ciò che hai detto però l’ho incontrato in Francia. L’Arcadia è un paesaggio eccezionale, molto verde; paesaggi simili li ritrovi anche in Italia, ad esempio in Sicilia.

    Torniamo alla tua infanzia; la guerra civile ti ha segnato: può essere alla base della tua vena polemica?
    Il mio bagaglio culturale greco ha svolto un ruolo fondamentale nei film che ho realizzato nel corso della mia carriera. La mia prima cultura, quella greca, mi ha permesso di fare determinati film, poi è subentrata una seconda cultura, quella francese. Non mi ritengo automaticamente un anticomunista; in Francia ad esempio ho incontrato molti comunisti che lavoravano benissimo: di loro credo semplicemente che fossero persone che si sono sentite tradite dall’Unione Sovietica.
    Da bambino ho vissuto l’occupazione tedesca e per quattro anni ho sperimentato cosa vuol dire sopravvivere; tutto questo mi ha fatto capire la vita in modo diverso. La cultura della mia infanzia è stata la base della mia vita.

    I tuoi primi ricordi?
    Dopo la messa andavamo in una scuola dove venivano mostrate delle immagini; la prima immagine, che ricordo mi colpì molto, fu quella di Claretta Petacci e Mussolini uccisi ed esibiti a testa in giù circondati da volti sorridenti. Fui colpito dall’accostamento tra la tragedia di quella scena e la gioia sui visi delle altre persone. Intanto sognavo di diventare Hunphrey Bogart o Burt Lancaster.

    Cosa ti ha portato a lasciare Grecia?
    Mio padre era considerato un comunista, in guerra con la monarchia greca, e questo sentimento fu trasmesso a tutta la famiglia. All’epoca ai figli delle famiglie antimonarchiche non era consentito proseguire gli studi e perciò mi trasferii in Francia dove era anche facile trovare dei lavoretti che mi permettessero di sostenermi.

    Come hai concepito il copione di “Vagone letto per assassini”?
    Ero appassionato di polizieschi, perché è un genere che ti lascia una totale libertà e in cui puoi dire e fare tutto ciò che vuoi. Sono stata influenzato più dai polizieschi americani che non dalla nouvelle vague, che per me era l’espressione francese e giovane dei registi italiani; quegli artisti venivano da famiglie borghesi, parlavano di loro, del loro mondo e delle loro vita e fare quei film per me sarebbe stato impossibile, al massimo avrei potuto parlare di un immigrato in Francia. Era un mondo che non mi apparteneva.
    Per circa un decennio lavorai come assistente alla regia come prevedeva la tradizione francese: ero un tuttofare, portavo i caffè, spostavo la macchina da presa e nello stesso tempo seguivo i miei studi di cinema. Poi un giorno mi ritrovai a dover contribuire alla scrittura di un copione, doveva trattarsi di un semplice esercizio ma incontrai Yves Montand che lo lesse e mi disse che era ottimo. Fu questa la genesi di “Vagone letto per assassini” e fu l’incontro con Montand a segnare il mio passaggio alla regia.

    Alcuni anni dopo arrivò “Z – L’orgia del potere” che vinse l’Oscar come miglior film straniero…
    Non intendevo fare un film politico, volevo solo raccontare la storia della presa del potere da parte dei colonnelli in Grecia. Feci leggere il copione a Jean-Louise Trintignant e poi iniziammo a cercare dei finanziatori, ma non li trovammo. Ovunque chiedessi ospitalità ricevevo un rifiuto, così dopo aver anche tentato di girare in Sicilia, incontrammo il ministro di Algeri che ci permise di girare in Algeria nonostante non ci fossero finanziamenti. Jacques Perrin divenne produttore e l’intero cast era convinto dell’utilità del film, tutti uniti da questo sentimento ‘anticolonnelli’. Quando uscì fu un fiasco, ma dopo due settimane divenne un successo mondiale.

    I tuoi film riguardano diversi paesi e la tua filmografia è accomunata da un interesse generale per ciò che accade nel mondo. Perché?
    A generare il mio interesse sono gli uomini, il potere, i modi in cui lo accettiamo e lo inseguiamo. Ogni film è il riflesso di un evento che mi ha colpito, ogni pellicola corrisponde a una mia passione: questo spiega la mia filmografia.

    Spesso i film di Rosi riprendevano titoli di giornale; anche le storie che tu racconti si rivolgono all’attualità: perché?
    Il cinema mi ha sempre interessato. In Francia la forma è la principale dimensione di un film, io invece sono più attento alla sostanza, perché è la sostanza ad imporre la forma e non il contrario.

    Sei un agguerrito lettore di giornali e spesso hai constato la deriva dei media…
    “Mad City” con Dustin Hoffman e John Travolta dimostrava che i media provocano un lotta quotidiana, una corsa allo spettatore, che ne abbassa il livello qualitativo. Il lettore diventa così cliente.

    Qual è il rapporto con gli sceneggiatori con cui lavori?
    Prima di tutto bisogna trovare un accordo sulla tematica da affrontare e poi stabilire una relazione affettiva con la persona con cui stai lavorando. Con Jorge Semprun ad esempio abbiamo vissuto insieme giorno e notte per circa un mese e mezzo per lavorare al copione di “Z – L’orgia del potere”.
    Anche con Franco Solinas per L’Amerikano fu la stessa cosa: lo incontrai, gli spiegai il tema del film e poi iniziammo a cercare insieme del materiale sugli Allende, incontrando diverse persone e andando fino a Cuba.

    E con gli attori?
    L’attore è il collaboratore principale di un regista perché ha il compito di portare la storia al pubblico, è colui che comprende e interpreta un ruolo perché possa essere trasmesso al meglio allo spettatore: l’importante è che gli attori accettino che l’ultima parola spetti al regista.
    Con ognuno di loro mi piace discutere del ruolo, spiegare e approfondire i vari aspetti del personaggio, il mio modo di vederlo, ma non amo molto le fasi preparatorie; poi cerchiamo insieme un compromesso. È quindi fondamentale che ci sia vicinanza, ammirazione e conoscenza.

    I tuoi film suscitano spesso controversie, come ad esempio “Amen”.
    C’è un tabu nel cinema italiano ed è il Vaticano.
    La critica che mi fu mossa all’epoca era di attaccare la Chiesa, ma quel film non voleva essere un attacco alla Chiesa, piuttosto a Papa Pio XII ed alla Curia per il loro silenzio, per non aver denunciato i crimini delle SS, per essere rimasti inermi.

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    Bif&st 2015: Jean-Jacques Annaud, il cinema è un gioco meraviglioso

    Il 3D? Quello che più avvicina un regista ad uno scultore. Il cinema? Un gioco meraviglioso che continua a interessarlo. Come la continua sperimentazione del linguaggio cinematografico, la curiosità per le novità tecniche e una genuina instancabile creatività che – insieme ai problemi produttivi in patria, la Francia – lo hanno portato ad ambientare i suoi film in giro per il mondo: Cina, Africa, Russia, Italia.
    E’ Jean-Jacques Annaud il protagonista di questa seconda giornata di Bif&st. Tocca a lui infatti, dopo Alan Parker, incontrare il pubblico con una Lezione di Cinema che ripercorre le principali tappe della sua carriera, ne esplora la poetica e ne rivela i lati più nascosti.
    Il regista de Il nome della rosa, che proprio a Bari riceve il Platinum Award dalla Fipresci, confessa così l’amore per l’Italia sin dai tempi in cui andava al cinema la domenica insieme ai genitori e la profonda e sconfinata ammirazione per Ettore Scola e “l’eleganza visiva dei suoi film”.
    L’occasione è anche quella di presentare il suo ultimo film, L’ultimo lupo, in sala dal 2 aprile.

    Cosa rappresenta l’uso del 3D per il cinema e come lo hai applicato ne “L’ultimo lupo”?
    Usando il 3D noi registi diventiamo scultori, mostrando un viso che si avvicina all’occhio dello spettatore, come se fossimo noi stessi all’interno di un acquario, ma dobbiamo utilizzarlo non commercialmente, per colpire lo spettatore e disturbare la narrazione, ma al servizio della storia narrata. È un sistema molto efficace per le scene di intimità o per dare emozione ad un oggetto particolare.
    Con “Le ali del coraggio” ho avuto il piacer di far riscoprire al pubblico le gioie del 3D, e in questo mio ultimo film l’ho scelto per creare una maggiore prossimità dello spettatore al cucciolo, per consentire al pubblico di percepire quel sentimento di condivisione delle emozioni del lupo. Quando si lavora con il 3d bisogna essere disciplinati.

    Ripercorrendo la tua carriera viene fuori l’aspetto internazionale dei tuoi film soprattutto dal punto di vista dei luoghi in cui sono ambientati: Cina, Africa, Italia. Che origine ha questo tuo gusto del viaggio?
    Amo scoprire epoche differenti e andare incontro a diverse civiltà. Ho la sensazione di poter portare con me lo spettatore e di condividere con lui il piacere della scoperta. L’ altra ragione è che spesso non ho trovato finanziamenti nel mio paese d’origine. In Francia ho perso i miei riferimenti per quanto riguarda la produzione e questo mi ha dato la possibilità di guardare il cinema oltre i confini della Senna e di capire quanto sia bello girare in altri luoghi e con persone di cultura diversa.
    Il cinema tipicamente francese non mi appartiene, perché io cerco di raccontare storie dell’intimo e del cuore.

    Saresti un ottimo archeologo…
    Ho due diplomi in archeologia e da piccolo avevo l’abitudine di scattare foto; amo molto i luoghi di culto e per questo mi è piaciuto girare molti dei miei film nei templi.

    Nelle tue storie ricorre spesso l’idea dell’uomo cambiato dall’ ambiente che scopre attorno a sè.
    Penso che in fondo noi registi facciamo sempre gli stessi film e i miei sono basati su uomini e donne che al momento del passaggio all’età adulta vengono spinti in una dimensione diversa. In qualche modo è la mia storia; dopo gli studi di cinema fui mandato in Africa, ero riluttante ma quando si aprì la porta dell’ aereo rimasi completamente affascinato da quello che vidi là fuori.
    L’ Africa ha cambiato totalmente la mia vita perché mi ha permesso di guardare il mondo con uno sguardo nuovo, diverso; non avrei mai potuto girare i miei film senza aver scoperto questa civiltà.
    Ogni adulto mantiene in sé un po’ dell’infanzia e per me il cinema è un gioco meraviglioso di creazione, è come giocare con i lego. So dentro di me di essere ancora un bambino, quando faccio film ho lo stesso entusiasmo di quando scartavo regali a Natale.

    La tua provenienza da un ambiente borghese forse ti ha portato a uscirne per entrare nel mondo reale…
    Ho avuto un’infanzia perfetta senza nessun rischio, il piacere della mia vita da ragazzo era andare al cinema la domenica con mamma e papà: lì potevo scoprire il piacere di essere proiettato in un realtà diversa da quella che vivevo. Il mio primo film fu “Ladri di biciclette”, i miei amavano il cinema italiano, adoravano De Sica e io adoro Ettore Scola: è uno dei tre registi che mi hanno maggiormente influenzato. Il primo è Alan Parker, per i suoi spot pubblicitari; ero rapito dalla sua maniera di dirigere, dalla sua eleganza raffinata, fu il mio primo grande amore. Con lui capii che si può parlare anche con le sole immagini, utilizzando il linguaggio del corpo.
    Al secondo posto c’è Costa Gavras che mi ha entusiasmato follemente, mi ha letteralmente abbagliato.
    Il terzo è Scola, ho visto i suoi film un numero infinito di volte e ho amato il suo senso dello humour, dello spettacolo e dell’ eleganza visiva.

    Cosa ti ispira degli animali?
    Siamo stati educati a pensare che la natura e gli animali siano stati messi al servizio dell’uomo, ma non è esattamente così. Noi siamo animali e dobbiamo imparare a tener conto delle nostre pulsioni, capire quale animale siamo ed essere capaci di addomesticarlo. Mi piace lavorare con l’istinto animale perché mi aiuta a lavorare meglio con gli attori; bisogna lasciare che esprimano i propri istinti e metterli al servizio della storia.
    Il mio mestiere è suscitare emozioni nel pubblico, ho bisogno cioè di riuscire a riportare la realtà dell’emozione, ricreare il contesto che susciterà quel sentimento; Sean Connery mi diceva che non c’era bisogno di commuoversi per far commuovere perché è il pubblico a dover provare quella sensazione.
    Per questo credo non ci sia alcuna differenza tra dirigere un animale o un bambino, un figurante o una star hollywoodiana; in entrambi i casi uso quello che si definisce metodo Stanislavskij.

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    Marco Pontecorvo apre il Bif&st tra Mattei e incursioni manga

    Quando sale sul palco del Petruzzelli per presentare Tempo instabile con probabili schiarite, che trova nel pubblico del Bif&st la sua prima platea, Marco Pontecorvo si commuove; la voce spezzata dal ricordo doveroso di Francesco Rosi a cui il regista di Pa-ra-da ha deciso di dedicare il suo secondo film, che inaugura la sesta edizione del Bari International Film Festival e che sarà distribuito nelle sale italiane in 120 copie dal 2 aprile.
    Con lui Marco, figlio di Gillo Pontecorvo, aveva lavorato come direttore della fotografia sul set de La tregua oltre ad essergli grande amico. Un tributo che attraversa l’intero film, infarcito di esplicite citazioni de Il caso Mattei. E non poteva essere diversamente in una commedia che parla di petrolio e conflitti generazionali in chiave surreale e a tratti fumettistica: originale infatti l’espediente di affiancare alla vicenda principale una storia quasi parallela, affidandola a delle animazioni manga.
    La scoperta casuale dell’oro nero da parte di due uomini ‘qualunque’, Ermanno (Lillo) e Giacomo (Luca Zingaretti) nel paesino di Sant’Ugo al confine tra Marche ed Emilia, innesca un racconto dai risvolti politico sociali che se da un lato strizza l’occhio all’attualità dall’altra mette in campo tutte le sfumature della problematiche umane: dalla rottura di un’amicizia decennale alla disamina di una complicata relazione padre figlio (quella tra l’idealista Ermanno e il diciassettenne Tito, appassionato di manga).
    Nel cast anche Carolina Crescentini, John Turturro e Lorenza Indovina.

    Perché hai deciso di raccontare questa storia?
    Marco Pontecorvo: L’attenzione alla dimensione sociale era presente anche nel mio lavoro precedente, che però era un dramma. Qui invece ho scelto di usare uno sguardo diverso, più ironico, anche se il tema di fondo è lo stesso: ancora una volta guardo alle problematiche umane ma lo faccio attraverso la metafora del petrolio e di quanto ti possa stregare. E proprio in questa dimensione dell’attenzione all’uomo e alle sue difficoltà nel vivere, trovo un tratto comune con Pa-ra-da .

    Come siete entrati nel progetto?
    Carolina Crescentini: Avevo letto la sceneggiatura già alcuni fa e mi era piaciuta sin da subito. Il film ha avuto una lunga genesi, sono passati quattro anni da allora.
    Lo trovo terribilmente piacevole e intelligente e poi mi diverte molto il mio ruolo. Con Marco è così, sul set siamo tutti molto seri ma ci ricordiamo anche di giocare.
    Luca Zingaretti: Ero l’ultimo arrivato, quando entrai nel progetto il cast era già tutto formato. Ero molto stanco perché venivo da un periodo di lavoro molto intenso e stressante, perciò all’inizio fui molto titubante; non sapevo quanto avrei potuto regalare al personaggio che Marco mi stava proponendo.
    Giacomo è l’immagine dell’uomo qualunque che cerca di campare facendo bene il proprio mestiere, e in Italia come lui ce ne sono tanti. Mi mancava un ruolo così, quando incontrai Marco parlammo di tante cose ma non del film e alla fine riuscì a convincermi.
    Ho sempre pensato che un film dipenda molto dal suo regista e dalla sua impronta, sia dal punto di vista artistico che di atmosfera sul set.

    Ci racconti di questo incontro con Luca?
    M. P.: Ci siamo messi a parlare di tutto tranne che del film, ma toccandone tutti i temi. Ci siamo trovati talmente bene che alla fine si convinse e per prima cosa gli chiesi di aprire con il finale, siamo partiti da lì, dalle conclusioni a cui arriva il suo personaggio. Non è stato facile!

    I toni del film sono leggeri, da commedia, ma i temi trattati sono molto complessi e attuali. C’è ad esempio un riferimento al petrolio in Basilicata e continui ed espliciti rimandi a “Il caso Mattei”…
    M. P.: Assolutamente sì. La storia è piena di riferimenti al film di Rosi, addirittura frasi intere tratte da “Il caso Mattei”, come quella che faccio pronunciare a Turturro (l’ingegner Lombelli) e che alla fine però ho dovuto tagliare.
    Sono cresciuto dentro quei film e mi sembrava importante citarlo; l’ingegner Lombelli ad esempio rappresenta la rivalsa verso le grandi compagnie che hanno fatto fuori Mattei. È come se questa spina gli fosse rimasta in gola , così oltre a guidare i due poveretti come un manovratore Lambelli trova anche l’occasione per togliersi questa spina e “metterla nel sedere alle big companies” come dirà nel finale.

    Nel film subisci il fascino di Turturro. E sul set?
    C. C.: Turturro è un attore straordinario e certo, ho subito il suo fascino… ma sono stata serissima!

    La scelta di questa incursione nel mondo dei manga?
    M. P.: Uno dei temi del film sono le varie generazioni e per questo mentre ci lavoravamo siamo finiti al Lucca Film Festival e al Romics dove abbiamo scoperto un mondo nel quale del resto sono cresciuto anche io.
    Ho pensato così che potesse essere la chiave di racconto del rapporto padre-figlio, lo sguardo surreale di Tito sulle vicende del padre. Mi sembrava un punto di vista diverso e più moderno rispetto al solito.

    Quanto la provincia in cui hai girato e gli umori del posto hanno impregnato questa commedia?
    M. P.: Tanto. Il film non poteva non svolgersi in un paesino e non poteva non essere una terra di sinistra; volevo girare in quella pancia dell’Italia dove stava cambiando tutto con le elezioni, la Lega…
    Mi piaceva poi il contrasto tra l’austerità dei manga e il caldo della parlata pesarese. Era fondamentale per me ambientare tutto in un paesino perché una storia così non poteva essere raccontata in una grande città.

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    Bif&st 2015: Da Lang a Rosi passando per Moretti

    Otto maestri per otto memorabili lezioni di cinema, due retrospettive – una dedicata alla riscoperta di un gigante come  Fritz lang, l’altra per commemorare l’immenso Francesco Rosi scomparso di recente e vergognosamente dimenticato dai fasti delle cerimonie hollywoodiane degli Oscar appena assegnati. E ancora tanti titoli italiani e internazionali, scelti tra i migliori distribuiti nelle sale del Bel Paese e tra quelli ancora inediti, oltre 300 appuntamenti fatti di incontri, tavole rotonde, convegni e focus sugli attori. L’edizione è la numero sei, la location è Bari, il protagonista è il ‘cinema’, non quello dei “tappeti rossi” ma quello “che fa chiarezza”: è il cinema del Bif&st (Bari International Film Festival) che torna per folle di giovani e appassionati dal 21 al 28 marzo nel capoluogo pugliese. Un festival che “costa poco”, come sottolinea il presidente Ettore Scola, e che “ha una sua precisa idea di cinema, che non bada a quanti ospiti e tappeti si riescano a mettere insieme. Negli altri festival non c’e lo stesso amore e la stessa curiosità di cinema; Bari ha tutto questo, ha una sua identità e un suo pubblico, soprattutto giovani che hanno bisogno sì, di lavoro, ma anche di allegria e conoscenza”.

    Ad aprire battenti il 21 marzo Kurt Cobain: Montage of Heck, il primo documentario sul leader dei Nirvana diretto da Brett Morgen (in uscita per Universal il 28 aprile) e l’atteso Humandroid di Neill Blomkamp (lo stesso di District 9 e di Elysium); nella prima giornata della manifestazione spazio anche all’italianissimo Tempo instabile con probabili schiarite di Marco Pontecorvo con  John Turturro, Luca Zingaretti, Lillo e Carolina Crescentini (distribuito da Good Films il 2 aprile).
    Il 22 marzoa Jean-Jacques Annaud presenterà  L’ultimo lupo, un kolossal da 38 milioni di dollari girato quasi interamente in Mongolia; sarà poi la volta di Ex machina, film dichiaratamente ispirato a Metropolis di Fritz Lang, opera prima del britannico Alex Garland (in sala dal 30 aprile per la Universal).

    Da non perdere anche Ho ucciso Napoleone, commedia di Giorgia Farina con Micaela Ramazzotti, Libero de Rienzo, Adriano Giannini, Thony, Pamela Villoresi, Elena Sofia Ricci, (distribuito da 01 il 26 marzo) e The Gunman di Pierre Morel con Sean Penn, Jasmine Trinca, Javier Bardem, Idris Elba (in uscita il 21 maggio per 01).
    A due anni di distanza dall’anteprima assoluta di Hannah Arendt, torna al Bif&st Margarethe von Trotta, che questa volta porta al festival The Misplaced World, già apprezzato alla scorsa Berlinale.
    Doveroso poi un tributo a Rosi attraverso una retrospettiva delle sue opere più significative realizzata in collaborazione con la Cineteca Nazionale e le Teche Rai.
    “Parlare di ‘cinema impegnato’ oggi è un ossimoro, perché il cinema è impegno per chi lo fa e per chi lo guarda, perché come tutte le arti deve essere strumento di comprensione della realtà, delle scelte e dell’ evoluzione di una società. – ricorda Scola – In Italia, il paese dei segreti, dell’oblio e dei misteri che restano tali anche a distanza di 50 anni, il cinema ha il compito di catturare la gente per darle una maggiore capacità di discernimento. Rosi e i suoi film sono serviti a questo: hanno chiarito le idee e anche chi non li ha visti ha potuto beneficiare di quella voglia di chiarezza. Dire che Rosi era un regista impegnato è riduttivo: era un’artista che sapeva cos’è il cinema, come va fatto e a cosa deve servire”.
    Il sipario calerà il 28 marzo sul Federico Fellini Platinum Award a Nanni Moretti, solo l’ultimo degli otto grandi registi (Alan Parker, Costa Gavras, Jean-Jacques Annaud, lo stesso Scola, Andrzej Wajda, Edgar Reitz e Margarethe von Trotta) che saliranno sul palco del Teatro Petruzzelli con le immancabili Lezioni di Cinema.

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    Bif&st 2015: A lezione di cinema con i grandi Maestri

    Otto grandi registi europei sul palco del Teatro Petruzzelli di Bari per otto indimenticabili Lezioni di Cinema. L’occasione sarà il prossimo Bif&st, il festival presieduto da Ettore Scola e diretto da Felice Laudadio, che si terrà come ogni anno a Bari dal 21 al 28 Marzo.

    Ad aprire le danze Sir Alan Parker, introdotto dal critico Derek Malcolm; la lezione prenderà spunto dal suo bellissimo Midnight Express (Fuga di mezzanotte) del 1978. Sarà poi la volta del regista francese Jean-Jacques Annaud, presentato dal critico Michel Ciment, che terrà la sua lezione dopo la proiezione di Sette anni in Tibet del 1998, in attesa dell’anteprima italiana, nella stessa serata, del suo nuovo film L’ultimo lupo (Le dernier loup). Il regista greco Costa-Gavras trarrà spunto per la sua lezione da Amen del 2002, sul controverso rapporto fra il pontificato di Pio XII e il nazismo. Sarà poi la volta di un grande maestro del cinema italiano, Ettore Scola, che terrà la sua master class dopo la proiezione di Una giornata particolare del 1977, nella nuova versione restaurata dalla Cineteca Nazionale, per il quale ottenne la sua prima nomination all’Oscar. Il polacco Andrzej Wajda, Oscar e Leone d’oro alla carriera, introdotto dalla critica Grazyna Torbicka racconterà i suoi 50 anni da regista partendo da uno dei suoi ultimi film, l’impressionante Katyn del 2007 sui crimini dei sovietici in Polonia all’inizio della seconda guerra mondiale. Un altro leggendario regista, il tedesco Edgar Reitz, autore di Heimat, il film in 30 episodi lungo oltre 54 ore che ha ottenuto negli anni una infinità di riconoscimenti, partirà proprio dall’episodio Hermännchen della serie televisiva passata anche nelle sale cinematografiche, e ora restaurata, per la sua lezione di cinema introdotta da Klaus Eder. Con Anni di piombo Margarethe von Trotta ottenne a Venezia nel 1981 il Leone d’oro e il premio Fipresci. Sarà questo il film alla base della lezione di cinema della regista tedesca che con la protagonista Katja Riemann presenterà in anteprima assoluta italiana nella stessa serata il suo film più recente The Misplaced World, trionfalmente accolto all’ultimo Festival di Berlino.

    Infine, in chiusura, introdotto dal critico francese Jean Gili, sarà la volta di un altro grande regista italiano incluso nel panel delle Lezioni di cinema: Nanni Moretti. La sua sarà una “lezione” a sorpresa che avrà inizio dopo la proiezione di Caro diario, Palma d’oro al Festival di Cannes 1984 e vincitore di numerosi altri premi. A tutti i registi verrà consegnato il Fipresci 90 Platinum Award. Nanni Moretti sarà insignito al Petruzzelli, nella serata finale del festival, anche del “Federico Fellini Platinum Award” per l’eccellenza cinematografica.

    Nella storia dei festival di tutto il mondo che ben conosco – ha dichiarato Laudadio – non è mai avvenuta una simile concentrazione di così autorevoli talenti impegnati a tenere, l’uno dopo l’altro, delle lezioni di cinema. Da vecchio giornalista mi auguro che i mass media, di tutti i tipi, prestino a questo avvenimento straordinario la stessa attenzione riservata a eventi certamente più ‘popolari’, diciamo così, ma infinitamente meno rilevanti sul piano della cronaca culturale e cinematografica. E lo dico non perché il Bif&st abbia bisogno di altro pubblicoche non sapremmo per altro come accogliere: lo scorso anno furono oltre 70.000 gli spettatori in 8 giorni, con una presenza media di 1.200 persone ad ogni lezione di cinema al Petruzzelli, facendo il tutto esaurito, un vero e proprio fenomeno – ma perché con iniziative di questo tipo, se correttamente raccontate dai giornali, dalle tv, dalle radio e dal web, si contribuisce a combattere e a battere la montante barbarie culturale».

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