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    Dialogo, pace e cinema: ecco il Religion Today

    L’amore per il cinema, la riflessione sulle religioni, sulle relazioni di genere, sul dialogo, sulla pace. Settima Arte e non solo al Religion Today Film Festival che si terrà dal 7 al 17 ottobre a Trento con distaccamenti a Merano e in altre località del Trentino. Si tratta di una kermesse che quest’anno giunge alla sua 19esima edizione che sarà intitolata “C’eravamo tanto amati. Religioni e relazioni di genere”. Un modo per rendere omaggio a un grande del cinema italiano, Ettore Scola, scomparso lo scorso gennaio.

    Il festival, che l’anno scorso ha premiato Timbuktu di Abderrahmane Sissako, opera tra le più celebrate del cinema africano, presenta un concorso a cui sono iscritte 53 tra film, documentari, cortometraggi che affrontano il tema della religione o del dialogo interreligioso e che provengono da 26 paesi diversi. A giudicare le proposte ci sarà una giuria internazionale di cui faranno parte tra gli altri Aruna Vasudev, fondatrice del Network for Promotion of Asian Cinema e Sahraa Karimi, prima e al momento unica donna afgana ad aver conseguito un dottorato nel settore cinema. Saranno quattro i premi assegnati nella cerimonia di premiazione che si terrà il prossimo 15 ottobre nel Teatro San Marco di Trento: quelli per il miglior film, documentario, cortometraggio e quello per il miglior soggetto. Un quinto riconoscimento verrà assegnato al film più convincente ed espressiovo nella sezione deciata al rapporto tra religioni, culture e relazioni di genere.

    Per info consultare il sito ufficiale.

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    Blair Witch: Il sequel che non strega

    Le telecamere tornano dopo 18 anni nei boschi del Maryland per Blair Witch, nuovo sequel di The Blair Witch Project. In sala dal 21 settembre.

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    Una leggenda nera, un video ritrovato e torna l’orrore nei boschi del Maryland. Blair Witch riporta in auge il mito della strega di Blair a quasi 18 anni da un film che ha fatto la storia, del marketing se non del cinema, ma di certo la storia. L’obiettivo è quello di far dimenticare un sequel senza amore, datato 1999, e creare un possibile nuovo franchise horror, per fare concorrenza ai vari Paranormal Activity e Insidious. Alla regia troviamo Adam Wingard, veterano del genere, mentre tra le fila del cast una serie di illustri semi-sconosciuti (il protagonista James Allen McCune vanta qualche presenza in prodotti televisivi come Shameless e The Walking Dead), quasi a rendere omaggio alla fattura casalinga del Blair Witch Project originale.

    La trama segue le mosse di James (McCune), fratello minore di Heather Donahue, attrice-personaggio del primo film, che decide insieme a un gruppo di amici, tra cui un’aspirante documentarista, di mettersi sulle tracce della sorella scomparsa ormai tanti anni prima. Armati di microtelecamere da portare con l’auricolare e persino di un drone, il gruppo, incurante di ogni rischio e pericolo, si addentra nei boschi che furono teatro delle misteriose sparizioni imputate alla strega di Blair.

    Come lascia intendere la trama questo nuovo episodio dell’aspirante saga non mette in campo particolari elementi di novità, se non forse l’aggiornamento tecnologico del sottogenere “found footage“, ovvero quella branca dell’horror che usa come premessa il fittizio ritrovamento di alcuni filmati in modo da farci calare nell’azione con una prospettiva pseudo-soggettiva. L’idea, che si fa risalire all’italiano Ruggero Deodato e al suo leggendario Cannibal Holocaust (1980), ha rinunciato da tempo, però, ai crismi dell’originalità. Basti pensare al fiorire di titoli che di questo canone narrativo hanno fatto scuola, dal già citato Paranormal Activity, al Cloverfield prodotto da J.J. Abrams, dal recente The Visit di M. Night Shyamalan al cult fantascientifico Chronicle, senza contare innumerevoli altri prodotti di serie b o inferiori. Dal canto suo questo nuovo Blair Witch può contare su qualche momento di genuino disagio se non di vero raccapriccio (la scena del tunnel sotterraneo, l’inquietante apparizione della strega) ma allo stesso tempo non c’è niente che streghi, né tanto meno incanti. La sensazione è che senza la potentissima campagna promozionale del primo The Blair Witch Project – campagna che tra ricostruzioni virali e battage pubblicitario era riuscita davvero, almeno per un attimo, a creare l’illusione che quello ritrovato fosse un filmato autentico – questo materiale mostri tutti i suoi i limiti e che non possa fare altro che ripetere stancamente la stessa formula senza però arrivare al cuore e alle viscere di spettatori solitamente poco attratti dall’horror. Niente può fare il regista Adam Wingard se non confezionare un prodotto di genere che difficilmente varcherà i confini del fandom più affezionato.

     

     

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    Jason Bourne: eroe dei giorni nostri

    Con Jason Bourne torna l’agente rinnegato più famoso del cinema e con lui lo storico protagonista Matt Damon. Dirige Paul Greengrass. In sala dall’1 Settembre.

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    Azione, azione, azione e un pizzico di attualità. Divelte una volta per tutte le labili radici letterarie Jason Bourne abbraccia la sua seconda natura, quella di re in pectore dell’action hollywoodiano, per presentarsi in una nuova pellicola che porta il suo nome, anche quello di battesimo in questo caso. Matt Damon torna a interpretare – ed è la quarta volta – il personaggio che era stato creato a suo tempo dallo scrittore Robert Ludlum e si porta dietro, su esplicita richiesta, uno dei suoi registi di riferimento, quel Paul Greengrass che già lo aveva diretto in The Bourne Supremacy e nel successivo The Bourne Ultimatum. Al suo fianco oltre alla solita Julia Stiles troviamo la rising star, fresca di premio Oscar, Alicia Vikander, Riz Ahmed, altro talento da tenere d’occhio, e due veterani di lusso come Tommy Lee Jones e Vincent Cassel.

    Messo momentaneamente da parte lo spin-off The Bourne Legacy la trama ci porta sulle tracce dello scomparso Jason Bourne (Damon) che vivacchia tra un combattimento clandestino e l’altro, finché l’amica di sempre, Nicky (Stiles), non lo mette sulle tracce di un mistero che sembra risalire al suo nebuloso passato. Il tutto mentre un direttore della Cia (Jones), pur di neutralizzare il disertore, è pronto a sguinzagliare un’agente tanto giovane quanto ambiziosa (Vikander) ma anche un killer molto meno accomodante (Cassel).

    Che la sceneggiatura sia firmata da Greengrass e dal montatore del film, Christopher Rouse, è allo stesso tempo una dichiarazione d’intenti e un discreto depistaggio. Dichiarazione d’intenti perché è evidente che l’intreccio ha come unico obiettivo quello di generare scene adrenaliniche, discreto depistaggio perché rispetto alla media del genere c’è quel pizzico di attualità, di cui si scriveva in apertura, che rende il piacere un po’ meno colpevole. E così Bourne e Nicky si ritrovano impegnati in un forsennato inseguimento in mezzo agli scontri di piazza Syntagma, ad Atene, mentre i loschi traffici tra la Cia e il personaggio di Ahmed – un po’ Zuckenberg, un po’ Steve Jobs – portano sullo schermo lo scontro tra Fbi ed Apple sulla questione della privacy delle banche dati, scontro che per mesi ha animato il dibattito politico e le istruttorie giudiziarie degli Stati Uniti.

    Adrenalina e attualità, quindi, ma anche la sensazione che il franchise sia tornato nelle mani giuste, quelle di Matt Damon. E questo nonostante lo spinoff abbia potuto contare su attori del calibro di Jeremy Renner ed Edward Norton, non proprio due palestrati senza carisma. Se poi aggiungiamo che il personaggio della Vikander promette di non essere soltanto una spalla senza mordente, ma riesce a trasmettere quella personalità che magari alla Stiles mancava, non è difficile ipotizzare che in futuro l’agente rinnegato più celebre del cinema tornerà con altri film – ci auguriamo – simili a questo. Action senza fronzoli, con trame calate in una buona approssimazione della realtà e personaggi che si facciano portatori – se non di una profondità letteraria – quantomeno di una sorta di dignità hollywoodiana.

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    Suicide Squad: Il blues del supercattivo

    Dal 13 agosto irrompe in sala la Suicide Squad, il team di supercattivi della Dc Comics. Protagonisti: Will Smith, Margot Robbie e Jared Leto.

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    Stavolta a prendersi la scena sono i supercattivi. È la variazione proposta da Suicide Squad, è la sua anima diversa, almeno a parole. Perché ad agosto gli eroi sono in ferie ma non lo sono i cinecomics, e la squadra suicidi diretta dal David Ayer di Fury è il quinto film dell’anno a rientrare nella categoria, il secondo prodotto dalla Warner Bros e dalla controllata Dc Comics, dopo la performance in chiaroscuro di Batman v Superman.

    Tratto dall’omonima serie a fumetti creata alla fine degli anni 50 la Suicide Squad è una squadra di supercriminali galeotti che viene impiegata dal governo degli Stati Uniti per missioni disperate o platealmente illegali, in cambio di un semplice sconto di pena. Questa Sporca Dozzina in versione fumettistica è stata affidata a un nome non banale, quello del regista-sceneggiatore Ayer, e a un cast stellare, composto da Will Smith, da Margot Robbie, dal premio Oscar Jared Leto, dalla modella Cara Delevingne e da Viola Davis e che avrebbe potuto contare anche su Tom Hardy se quest’ultimo non fosse  rimasto bloccato tra le insidie del grande nord americano, impegnato nelle riprese infinite di The Revenant.

    La storia è quella di Deadshot (Smith), killer a pagamento e padre amorevole, di Harley Quinn (Robbie), ex psichiatra sedotta dal Joker (Leto), e di un gruppo di altri criminali che si trovano alle dipendenze di una cinica g-woman, Amanda Waller (Davis), pronta a mandarli allo sbaraglio in una missione decisamente più grande di loro.

    Ricco d’azione e prodigo di personaggi Suicide Squad carica gli occhi dello spettatore di sequenze forsennate, di minacce impossibili, di una visionarietà che si affaccia a tratti, prendendo le forme di uomini in costume da mascotte che imbracciano il mitra in cruente sparatorie o di oniriche mani nere che trasformano in strega il personaggio della Delevingne.

    Eppure Suicide Squad sembra figlia di qualche ripensamento di troppo. La sceneggiatura, firmata dallo stesso Ayer, mostra gli evidenti segni della riscrittura, con una parte iniziale allegra e accompagnata da una selezione musicale insistita e azzeccata, e una parte centrale dai toni foschi che richiamano il mood di Batman v Superman, mood che era stato tra i punti più contestati della pellicola di Zack Snyder. Condizionata anche da una campagna promozionale che aveva sottolineato solo gli aspetti più scanzonati, la Suicide Squad mostra i segni di una dolorosa dicotomia, fatta di flashback che si accalcano l’uno sull’altro e di una folla di personaggi costretti spesso al sacrificio narrativo.

    Se il percorso del film non è netto non vuol dire però che tutto sia da buttare. Perché la sensazione è che il film abbia azzeccato sia gli attori che i personaggi. Se Margot Robbie in trucco bianco e hot pants, armata di martelli e mazze da baseball, è già diventata un’icona, non sfigura nemmeno Jared Leto, nei panni del terzo Joker cinematografico, in un’interpretazione più fisica del personaggio, lontana dalle smorfie gigione di Jack Nicholson e dall’anarchico concettuale portato sullo schermo da Heath Ledger. Splendida anche la sintonia tra i due, peccato che la loro storia sia solo una delle tante e che la logica dell’universo condiviso pretenda il ricorso sistematico all’accenno, al “ci rivediamo nella prossima puntata”. Ma Suicide Squad non è solo il duetto tra Joker e Harley Quinn, c’è anche la spietata Amanda Waller di Viola Davis, e il sorprendente Will Smith, che si prende la scena nonostante abbia pescato il personaggio meno interessante del mazzo. Tra le figure di contorno spicca invece il giovane Jay Hernandez, nella parte di un uomo funestato da poteri demoniaci e sensi di colpa. Restano invece sullo sfondo gli altri, qualcuno a malincuore, qualcuno meno.

    Il rammarico principale però è che i cattivi della Suicide Squad restano cattivi solo sulla carta. La possibilità di ribaltare le prospettive del genere rimane chiusa e sigillata in una cornice che finora solo l’anti-eroe Marvel Deadpool, protagonista dell’omonima pellicola della Fox, è riuscito in qualche modo a scardinare. Il risultato finale è quello di un film che poteva essere meglio, ma che non spiega l’odio suscitato nella critica d’oltreoceano. Certo è che a parte gli agognati successi al botteghino e certe eccezioni di lusso, il genere dei cinecomics continua a rimandare il suo appuntamento con la maturità.

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    Il Drago Invisibile: il classico è moderno

    Dal 10 agosto in sala il remake di Elliot, il drago invisibile, lungometraggio Disney del ’77. Nella nuova versione Bryce Dallas Howard e Robert Redford.

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    C’era una volta Il Drago Invisibile. L’aggiornamento, il reboot se preferite, di un lungometraggio del 1977 permette alla Walt Disney di fare sfoggio di un’arte in cui sembra diventata maestra, quella di dare nuova vita a una vecchia proprietà intellettuale. Quasi 40 anni fa Elliot, il drago invisibile, spiegava le sue ali, disegnate con le forme arrotondate dei cartoon. Nell’estate del 2016, al servizio di questa favola moderna, ci sono invece gli esperti del Weta Workshop Group, i maghi degli effetti speciali in digitale che avevano dato vita alla Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien nei film di Peter Jackson.

    La storia è quella di Pete (il giovane Oakes Fegley), un novello Mowgli che sostituisce la giungla di Rudyard Kipling con una foresta del grande nord americano, e che al posto dell’orso Baloo fa amicizia con un drago invisibile che chiama Elliot. Ma l’idillio sembra giungere al termine quando il mondo degli uomini fa capolino nella sua vita. Prima nella forma rassicurante della ranger Grace (Bryce Dallas Howard), poi in quella più inquietante di Gavin (Karl Urban), capo di una squadra di tagliaboschi.

    Nella pellicola diretta da David Lowery il drago Elliot non è più un mostro mitologico, ultima nemesi dell’eroe, ma un’incarnazione degli aspetti più armonici della natura, un anti-godzilla dal pelo verde erba, che gioca come un cucciolo e sputa il fuoco solo contro l’ingiustizia. E la chiave scelta da Lowery e dal co-sceneggiatore Toby Halbrooks, riesce ad aprire lo scrigno dei ricordi e delle emozioni. La fiaba del Drago Invisibile è avvolta infatti in un velo di malinconia e di pacato ottimismo, accompagnata com’è dalle note folk delle canzoni di Bonnie “Prince” Billy e dal sorriso eterno di Robert Redford, che nel ruolo del padre di Grace si fa portavoce di un mondo antico e magico, che continua ostinatamente a vivere anche in un presente che ha sempre meno tempo per sognare.

    Dimenticati in soffitta gli aspetti più kitsch del vecchio Elliot, la psichedelia involontaria, quelle canzoni figlie del successo di Mary Poppins e dei classici animati, il nuovo Drago Invisibile segue un protagonista quantomai moderno. Oakes Fegley con il suo Pete sembra seguire le orme di altri piccoli personaggi che hanno segnato il cinema del 2016. Il Mowgli del recente Libro della Giungla, ma anche il Jacob Tremblay del drammatico Room. Gli altri attori – la Howard, il Wes Bentley di American Beauty, l’Urban del Signore degli Anelli – si calano in ruoli che restano ben inquadrati in uno schema, e Lowery ha il merito di non farsi prendere dalla retorica, di non cedere alle tentazioni dell’epos. Il risultato è che Il Drago Invisibile riesce a raccontare una storia riuscita e senza fronzoli in poco più di un’ora e mezzo, senza farsi prendere dall’ansia del franchise e dalla necessità di un seguito, e di questi tempi è quasi una rivoluzione.

     

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    Cell: La crociata imperfetta del Re del Brivido

    Stephen King adatta per il cinema il suo Cell, romanzo di cellulari e zombie. Con John Cusack e Samuel Jackson. Dal 13 luglio in sala.

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    Una vibrazione nella tasca, un trillo familiare e poi torme di zombie che si aggirano per le strade in cerca di vittime malcapitate. Cell è solo l’ultimo romanzo di Stephen King a trovare la via del grande schermo, quasi un apripista rispetto ai più attesi It e La Torre Nera che usciranno nel 2017. La pellicola di Tod Williams, già regista di Paranormal Activity 2, ha però un asso nella manica rispetto alle mega produzioni targate rispettivamente New Line e Sony, e si tratta proprio del Re del Brivido. Lo scrittore più letto e venduto del mondo si è impegnato in prima persona scrivendo la sceneggiatura a quattro mani insieme al meno celebre Adam Alleca. E King è sicuramente una delle tre colonne portanti del film, insieme a John Cusack e Samuel L. Jackson, i due attori veterani che tornano a collaborare su una storia dello scrittore del Maine a quasi dieci anni da 1408.

    La storia è quella del disegnatore Clay Riddell (Cusack) che si trova in un aeroporto quando un misterioso impulso trasforma in belve senza mente tutte le persone che stanno parlando al cellulare. In una Boston invasa e devastata Clay incontra Frank (Jackson) e Alice (la giovane Isabelle Fuhrman, protagonista dell’horror Orphan) e con loro si incamminerà verso il New Hampshire, per ricongiungersi con sua moglie e suo figlio,

    Il rapporto tra King e il cinema è fatto di alti e bassi. Tra lo sconfessato Shining e Le Ali della Libertà, tra Stand by me e La Zona Morta di David Cronenberg, passando per la Kathy Bates di Misery non deve morire c’è anche tutta una serie di film che o non hanno spiccato il volo o hanno solo provato a sfruttare lo sterminato fandom dell’autore per elevare una preghiera al dio-incasso. La sensazione è che quest’ultimo sia anche il caso di Cell, nonostante il coinvolgimento diretto di King. E così la teoria estetica del re del brivido, fatta di un horror venato di grottesco che sembra uscire direttamente da certi b-movie degli anni 70, trova una perfetta incarnazione nella pellicola di Tod Williams. Peccato però che il passaggio dalla carta alla celluloide sia tutt’altro che indolore perché lo spunto ridanciano del romanzo, nato come lo sfogo genuino di uno scrittore sessantenne contro la crescente mania dei cellulari, non è più la plastilina che un maestro di parole potrà adattare nelle forme più intriganti. Il cinema è un arte collettiva e risponde a determinate regole. E così King e il co-sceneggiatore Adam Alleca non hanno a disposizione 500 pagine e più per spiegare ogni passaggio dell’intreccio.

    Il risultato è che il film inizia all’improvviso, continua all’improvviso e finisce così all’improvviso da confondere lo spettatore. E tra un passaggio e l’altro, tra un inseguimento e l’altro, i dialoghi tra i suoi protagonisti cercano di fare da didascalia al tutto, riuscendo però solamente ad appesantire il film con una serie maldestra di spiegoni o inserendo metafore altisonanti e un po’ fuori luogo pronunciate spesso da un John Cusack che sembra non aver troppa voglia di recitare. Le battute migliori e i pochi sorrisi del film sono lasciati invece a Samuel Jackson, mentre una serie di altri personaggi si alterna sullo schermo senza lasciare troppo traccia di sé.

    Williams dal canto suo cerca di trasformare in immagini le parole limitandosi al ruolo di traduttore, ma i suoi sforzi finiscono per cadere vittima di una sceneggiatura sbagliata e di un budget non all’altezza (l’effetto speciale delle fiamme sarebbe sembrato posticcio anche una decina di anni fa). In definitiva Cell è l’ennesimo prodotto di serie b generato dall’infinita produzione letteraria del genio del Maine, il cui unico merito è quello di darci una versione più diretta di come King intenda il cinema, di come vorrebbe adattati i suoi libri, senza che a sbagliare siano gli altri come capita anche troppo spesso.

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    Il trailer di Il diritto di uccidere, l’ultimo film di Alan Rickman

    Teodora Film ha reso disponibile online il trailer in italiano di Il diritto di uccidere, thriller diretto dal Premio Oscar Gavin Hood (Il suo nome è Tsotsi) che sarà nelle nostre sale a partire dal prossimo 25 agosto.
    La pellicola vede nel cast anche la partecipazione di Alan Rickman, scomparso lo scorso gennaio, con la sua ultima interpretazione per il cinema.
    Protagonista della storia è il colonnello inglese Katherine Powell, interpretata da Helen Mirren, che, dopo sei anni di ricerca, riesce a scovare una cellula terroristica a Nairobi. Il colonnello si rende conto che per eliminarla, l’unico modo è pianificare un attacco attraverso un drone, pilotato dal giovane ufficiale Steve Watts. Ma quando l’attacco sta per essere sferrato, i due si rendono conto che vicino all’abitazione da colpire, si trova una bambina che gioca spensierata.
    Nel cast troveremo anche Aaron Paul, Barkhad Abdi e Iain Glen. Di seguito potete vedere le immagini del trailer.

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    Cattivi Vicini 2: Il nemico è dietro l’angolo

    I coniugi Seth Rogen e Rose Byrne tornano in Cattivi Vicini 2. E stavolta dovranno vedersela con Chloë Grace Moretz. In sala dal 30 giugno.

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    Musica a tutto volume, feste fino a tarda notte e l’incubo è servito. L’incubo in questione è quello di Cattivi Vicini 2, commedia cinico-demenziale che segue a due anni di distanza il precedente Cattivi Vicini. Stesso regista, Nicholas Stoller, stesso cast, a cominciare dai mattatori del primo film, la coppia di neogenitori Seth Rogen e Rose Byrne e l’ex teen star Zac Efron. Unica aggiunta degna di nota è quella di Chloë Grace Moretz, attrice adolescente di riferimento per Hollywood, che qui prende il suo personaggio abituale e lo avvolge in una patina di ribellione condito da un pizzico di diabolicità.

    La storia è sempre quella di Mac e Kelly Radner (Rogen e Byrne), una seconda figlia presto in arrivo, che stavolta si trovano alle prese con la banda di universitarie scatenate guidate da Shelby (Moretz), che potrebbe far fallire la vendita della loro casa. Nella nuova guerra tra vicini c’è anche Teddy Sanders (Efron), prima nemico ora alleato della coppia che lo aveva affrontato nel primo film.

    Il lungometraggio scritto dal regista, da Seth Rogen, dal suo collaboratore Evan Goldberg, e dagli sceneggiatori del primo film Brendan O’Brien e Andrew Jay Cohen, non si sforza troppo di cambiare la formula del primo episodio del franchise. E quando lo fa forse sarebbe meglio che non lo facesse. Perché Cattivi Vicini 2, oltre che buttarla sull’eterno conflitto con chi ci vive accanto e sullo scontro generazionale in genere, aggiunge alle sue fondamenta una colata pseudofemminista e buonista che finisce per andare in contraddizione con le parti migliori del film.

    Il riferimento è a Seth Rogen, che con le sue battute politicamente scorrette riesce a strappare qualche risata a intervalli regolari, complice anche la Byrne con cui l’attore riesce a mettere in scena una discreta chimica da palcoscenico, fatta di numerosi botta e risposta che si contraddistinguono per la puntualità dei tempi comici. Il resto del film è poca cosa. Un prologo per cercare di spiegare le ragioni delle due fazioni in guerra, qualche passaggio di grana grossa per imbarcare anche i fan dei vari American Pie e Scary Movie (dalla bambina che per giocare preferisce i sextoy alle bambole fino all’offensiva delle universitarie che bombardano la casa dei Radner con proiettili che forse è meglio non svelare) e un finale che più a tarallucci e vino non si può.

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    A girl walks home alone at night: Vampiri col burqa

    Horror, dramma e spaghetti western si fondono in A girl walks home alone at night, bizzarra storia di vampiri diretta dall’irano-americana Ana Lily Amripour. In sala dal 30 giugno.

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    Suggestioni iraniane, spirito occidentale. Stavolta i due mondi si incontrano senza scontrarsi. Succede in A girl walks home alone at night, pellicola apolide per eccellenza, prodotta con soldi americani (quelli della Spectre Vision di Elijah Wood), parlata in lingua farsi, diretta dall’irano-americana Ana Lily Amripour, girata oltreoceano e ambientata in una sorta di zona grigia dell’Iran. Il film arriva nelle sale italiane a due anni dalla sua realizzazione e dopo un passaggio al Sundance Film Festival, la kermesse di riferimento del cinema indipendente americano e non solo. Merito di Academy Two, distributore nostrano che per l’estate ha deciso di andare in controtendenza e di puntare sul medio oriente grazie alla rassegna Nuovo Cinema Teheran.

    La storia è quella di Arash, sorta di James Dean iraniano con una lucidissima auto d’epoca e un padre tossicodipendente e indebitato con dei malavitosi. Ma è anche la storia d’amore tra Arash e una misteriosa ragazza che si aggira tra le strade di Bad City, una città fantasma popolata da reietti, una ragazza che di notte svela la sua doppia natura di vampiro.

    È un bizzarro miscuglio di generi quello che anima A girl walks home alone at night. C’è l’horror, un horror d’atmosfera più che di sangue, dove emergono le suggestioni stilizzate alla Dario Argento più che gli schizzi gore della produzione americana. E poi c’è uno sprazzo della tradizione drammatica del cinema iraniano, i suoi silenzi, i suoi lunghi primi piani. Ma in tutto questo emergono anche un pizzico di pulp e una spolverata di Spaghetti Western, suggerita da uno sfondo che non avrebbe sfigurato in certi film di Sergio Leone e sottolineata da una colonna sonora che in certi passaggi richiama anche le note immortali di Ennio Morricone.

    Quello di Ana Lily Amripour è un film che saprà pizzicare le corde di un pubblico cinefilo, grazie alle atmosfere potenti, alle sfumature d’acciaio della fotografia di Lyle Vincent e a una selezione di pezzi musicali eclettici, che variano dai movimenti post punk dei White Lies, fino all’elettronica, passando per i pezzi delle band iraniane più influenti della scena pop e rock. Un’esperienza sensoriale intensa pronta a compensare certe assenze narrative. In definitiva A girl walks home alone at night è un’opera spiazzante, un cocktail di ingredienti che finora nessuno aveva provato a miscelare, vuoi per le distanze geografiche, vuoi per quelle politiche che sembrano ancora più incolmabili.

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    Il Piano di Maggie – A cosa servono gli uomini: Triangolo d’amore e di sorrisi

    Greta Gerwig, Ethan Hawke e Julianne Moore alle prese con un triangolo amoroso messo in scena da Rebecca Miller, regista di Personal Velocity. In sala dal 30 giugno.

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    C’erano una volta un marito, una moglie e un’amante. La storia è vecchia come il mondo ma la prospettiva non è la solita. È lo sguardo divertito e divertente de Il Piano di Maggie – A cosa servono gli uomini, quinto film di Rebecca Miller, cineasta abituata a frequentare i territori inesplorati del cinema indipendente e che nell’occasione sceglie invece di rientrare nel solco del mainstream per una commedia che di romantico ha solo il retrogusto.

    La storia è quella di Maggie appunto, che ha il volto spaesato di Greta Gerwig, attrice tra le più interessanti della scena a stelle e strisce. Maggie è “l’altra”, single e aspirante madre che trova un amore inaspettato tra i corridoi dell’università. È l’amore del “lui”, John (Ethan Hawke), docente e scrittore in erba che non si sente più, o forse non si è mai sentito, al centro dell’attenzione. Il problema è che “lui” è sposato con “lei” (Julianne Moore), collega di John e saggista di fama mondiale. Ovviamente tra Maggie e John è subito amore, passione, ma altrettanto ovviamente non tutto va come deve andare e allora ecco che c’è bisogno del piano, quello citato nel titolo.

    Nell’adattare per il cinema il romanzo di Karen Rinaldi Rebecca Miller, figlia d’arte del commediografo Arthur Miller e della fotografa Inge Morath, ricorda a tutti che basta davvero poco per fare un bel film. Un tocco leggero, un cast talentuoso e affiatato e la magia del cinema diventa improvvisamente concreta. Senza fare la storia della settima arte, senza riscrivere i manuali o deviare il corso dei potenti fiumi la regista del Connecticut riesce a far sorridere con grande naturalezza, sfruttando un’ensemble di attori scelti con dovizia anche per le parti secondarie. Il centro di tutto è Greta Gerwig, ultima degli idiosincratici newyorkesi, musa del suo compagno-regista Noah Baumbach, che ha contribuito a lanciarla con pellicole delicate e divertenti come Frances Ha e Mistress America. Attrice e anche un po’ personaggio la Gerwig porta in scena il suo campionario di tic, di mezze frasi e di intercalari. La si trovasse anche dietro la macchina da presa verrebbe da credere di avere di fronte un Woody Allen in gonnella, un Woody Allen dei tempi d’oro per intendersi. Greta un film lo ha già diretto (Nights and Weekends del 2008), qualcun altro lo dirigerà, ma nel frattempo preferisce rimanere attrice e personaggio. La si vedrà nel prossimi film di Todd Solondz e al fianco di Natalie Portman nel biopic su Jackie Kennedy.

    Il Piano di Maggie non è solo la Gerwig però, è anche l’espressione severa di Julianne Moore, altro pilastro del film. Espressione che riesce sempre ad addolcirsi nel momento giusto, ricordando a tutti perché la Moore abbia portato a casa un Oscar neanche troppo tempo fa. Ethan Hawke non è da meno, nella parte di un maschio affascinante ma anche frustrato, vanesio e un po’ sballottato. E non sfigurano neanche i personaggi di contorno, il divertente Guy, che ha il volto del Travis Fimmel della serie tv Vikings, ma anche Bill Hader e Maya Rudolph, due diplomati alla scuola del Saturday Night Live. Alla fine Il Piano di Maggie è un film spensierato che non vuol dire ottuso ma leggero e garbato, di quelli che ci ricordano l’Hollywood dei tempi migliori, di quelli che si vorrebbe vedere più spesso.

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