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    Parasite: I poveri alla guerra

    Il coreano Bong Joon-ho dirige Parasite, commedia nera che ha conquistato la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes. In sala dal 7 novembre.

    Una commedia nera che si annida nel solco delle differenze sociali, se non fosse che il solco sembra più una voragine nel nuovo film di Bong Joon-ho, quel Parasite che, dopo aver conquistato la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, si appresta a esordire nelle sale del Belpaese. Si tratta di un piccolo ritorno alle origini per il cineasta coreano, che negli ultimi due lungometraggi, Snowpiercer e Okja, aveva optato per attori hollywoodiani e lingua inglese.

    Nei sobborghi della metropoli la famiglia Kim, pure molto unita, conduce una vita miserevole. Schiacciata in un seminterrato sempre a rischio allagamenti, e aggrappata a un sussidio di disoccupazione, è costretta a tirare avanti architettandosi una serie di espedienti. Fino a quando l’occasione della vita non capita tra le mani del figlio più giovane. Chiamato a insegnare inglese alla figlia di una coppia facoltosa e un po’ ingenua, il ragazzo riesce a poco a poco a sistemare anche la sorella, il padre e la madre, rispettivamente con il ruolo di insegnante di arte-terapia per il secondo figlio, di autista e di colf.

    Ma in questa commedia, che col proseguire dei minuti non esita a tingersi di nero, a respirare con il ritmo cadenzato di un thriller, non tutto è come sembra. E nella cantina della splendida villa della coppia benestante si cela un segreto. Un segreto che segna una spaccatura sempre più netta tra le classi sociali, mentre la sceneggiatura scritta dal regista insieme ad Han Jin-won ci accompagna tra le trincee meschine di una guerra tra poveri, combattuta all’ombra dell’inconsapevolezza e dei nasi turati di chi vive nel privilegio. Una guerra che, oltre a comportare il consueto spargimento di sangue, non sembra fornire alcuna reale soluzione, ma solo alimentare amare utopie.

    L’alternanza di toni è brillante, l’incalzare degli eventi è inesorabile. Bong Joon-ho, che ha dichiarato più volte di essere un grande fan di Psycho, finisce per recitare con grande ispirazione il copione hitchcockiano, mostrando di aver appreso il meglio di quello che Hollywood può offrire, pur tenendo ben presente il dinamismo mutuato forse da un certo cinema, lo scuola di Hong Kong prima di tutto, più vicino, anche solo per attinenza geografica. Ma Parasite non è solo l’angoscia di un thriller, è anche la risata dell’espediente, è una riflessione sulla differenza e l’indifferenza, è la tragedia che si cela dietro la maschera della commedia. E allo stesso tempo, dietro i toni di una narrazione mainstream e un titolo ingannevole, che potrebbe richiamare le formule truci dell’horror, si nasconde uno dei film più riusciti di questo decennio ormai agli sgoccioli.

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    Terminator – Destino Oscuro: i colori sbiaditi di un reboot

    Con Terminator – Destino Oscuro torna al cinema la saga futuribile che rese celebre Arnold Schwarzenegger. Stavolta in scena c’è anche Linda Hamilton. Dirige il Tim Miller di Deadpool. In sala dal 31 ottobre.

    Il destino cinematografico dei film di Terminator, almeno da 20 anni a questa parte, non è troppo dissimile da quello dei truci robot da cui prendono il titolo. Continuano a riproporsi a intervalli di tempo regolari senza mai portare a termine la propria missione. Sia che si tratti di annientare sul nascere la futura resistenza umana, sia che si tratti più prosaicamente di riempire le casse della Paramount, che produce, e della 20th Century Fox che distribuisce. Ecco quindi che il nuovo titolo, Terminator – Destino Oscuro, sembra segnato, già nella formulazione, da un’amara ironia. Certo è che questa iterazione – la sesta per chi tiene ancora il conto – prova a fare le cose in grande, riportando in sella, almeno con il ruolo di produttore, quel James Cameron che era stato il nume tutelare dei primi due capitoli della saga, film che avevano creato il culto su cui questi sequel cercano di capitalizzare. Cameron produttore porta con sé anche un altro ritorno, quello di Linda Hamilton, la protagonista dei tempi d’oro, che si conferma la novità migliore di questo capitolo. Il nuovo regista è Tim Miller, reduce dal successo di Deadpool, mentre il nuovo cast comprende le giovani Natalia Reyes e Mackenzie Davis, il cattivo Gabriel Luna e la conferma di Arnold Schwarzenegger, che solo gli impegni politici di governatore della California erano riusciti a tenere lontano dal franchise.

    La sceneggiatura, scritta a sei mani da David Goyer, Justin Rhodes e Billy Ray, sorvola con nonchalance sulle uscite più recenti, riprendendo le fila dal secondo film. Un escamotage usato già in passato, peraltro, e con scarso successo. Stavolta il futuro, cambiato da Sarah Connor (Hamilton), rinvia di un ventennio la catastrofe del giorno del giudizio e ne cambia l’autore, non più il tetro computer Skynet ma una sorta di virus informatico cosciente chiamato Legion. La strategia per liberarsi degli umani è sempre la stessa, mandare un terminator (Luna) nel passato a prendere di mira una malcapitata operaia messicana (Reyes). Dal canto loro gli umani non se ne stanno con le mani in mano, mandando nel passato una propria rappresentante (Davis), ma con dei potenziamenti ciberneteci per rendere la lotta un po’ meno impari.

    Terminator – Destino Oscuro, come già era successo col precedente Genisys, è tanto un sequel quanto un tentativo di creare una sorta di reboot. Parola d’ordine: ricominciare da zero, senza voler dimenticare il passato. Al contrario di Genisys però l’idea di fondo di Destino Oscuro è meno interessante e così, lo strano destino del film di Miller è quello di essere probabilmente migliore dei precedenti, ma anche il meno originale nelle premesse. Terminator: Salvation si proponeva infatti l’obiettivo di raccontare un aspetto diverso dell’immaginario del franchise, spostando l’azione in quel futuro post-apocalittico che gli altri film accennavano soltanto. Genisys invece riscriveva le origini stesse del mito, cercando di sfruttare tutte le possibilità aperte dal topos narrativo del viaggio del tempo, immaginando un mondo dove lo stesso leader della resistenza umana era stato trasformato in robot. Destino Oscuro invece si limita a riproporre la formula originale cercando di concentrarsi sulla realizzazione. Un filosofia conservativa che nasconde un intento nobile, ma forse è proprio questa scelta a condannare il film, perché alla fine il pur bravo Miller non è James Cameron e allora quello che poteva essere un sequel dignitoso finisce per abbracciare il destino, quello sì oscuro, di tanti reboot, quello di essere una nuova versione dell’originale, tanto vivida nei colori, quanto sbiadita nei contenuti. Anche perché i nuovi elementi, a cominciare dal cast, non brillano particolarmente e a restare impressi nella memoria sono proprio Schwarzenegger e Linda Hamilton, tanto che viene da chiedersi perché non sia stata coinvolta anche nei film precedenti.

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    It – Capitolo 2: Il ritorno del clown

    Gli incubi di Stephen King tornano al cinema in It – Capitolo 2, sequel e conclusione della saga diretta da Andy Muschietti con James McAvoy e Jessica Chastain. In sala dal 5 settembre.

    Un clown assassino, una città maledetta e una banda di ex-ragazzini. Torna al cinema, con It – Capitolo 2, la creazione più famosa di Stephen King. Non si tratta di un sequel come un altro ma della conclusione del film precedente, perché l’adattamento del romanzo fiume del bardo di Bangor, nel Maine, assume anch’esso proporzioni ragguardevoli. Più di cinque ore tra primo e secondo film, per un tomo che superava le mille pagine. Alla regia torna l’argentino Andy Muschietti mentre il cast di giovanissimi del primo film lascia il posto alle versioni adulte dei personaggi, il balbuziente Bill è diventato uno scrittore (James McAvoy), la spericolata Beverly è ora una donna alle prese con un marito violento (Jessica Chastain) e così via.

    A richiamarli a casa, nella natia e sinistra Derry, è il loro amico d’infanzia Mike (Isaiah Mustafa), unico rimasto a vigilare sul segreto del loro passato, segreto che tutti sembrano avere dimenticato. Ma il segreto, ovvero il mostro che assume le forme del clown Pennywise (Bill Skarsgard), non ha dimenticato loro ed è tornato dopo 27 anni a mietere ancora le sue vittime.

    Anche questo secondo capitolo si conferma un horror dal volto umano, dove un elemento umano preponderante finisce per relegare in secondo piano l’horror. Eppure il regista Muschietti, che negli ambienti cupi del genere più terrorizzante ha mosso i suoi primi passi a Hollywood, decide di dedicare più tempo alla voce “spavento”, forte delle quasi tre ore di durata e memore delle critiche ricevute dal primo film. Lo sforzo è ripagato solo in parte, anche per la scelta stilistica, dettata in prima battuta dal romanzo, di affrontare gli incubi kinghiani declinandoli in chiave grottesca. E se qualche volta l’effetto è efficace, qualche altra volta la corda è troppo tirata (come nella scena della statua gigante di Paul Bunyan). Ma a sottolineare ancora di più l’importanza dell’elemento umano è anche che tutte le scene più spaventose, quelle più brutali, sono quelle dov’è l’uomo, e non il mostro, a stringere la mano sul pugnale insanguinato. A cominciare dall’incisiva sequenza iniziale dove un gay (il regista Xavier Dolan in un cammeo) viene pestato da una banda di omofobi, prima di essere ucciso dal clown oppure, quando il bullo di un tempo, novello Renfield stokeriano, torna a spaventare i protagonisti.

    Ma se le ombre di questo film deludono, almeno in parte, le luci invece lo riscattano. Perché non era facile ricreare quella complicità emozionante, che racconta di un’infanzia complicata ma felice, che aveva impreziosito il primo film. Come in generale – e questo è uno dei temi principe del romanzo – non è facile ricreare la magia innocente della prima età quando si è adulti. Eppure Muschietti si scopre un regista capace di affrontare più registri, quello drammatico e quello comico forse anche più di quello horror. Il cast adulto (oltre a quelli già citati ci sono gli spassosi Bill Hader e James Ransone e il bel Jay Ryan) si dimostra all’altezza di quello giovane, il cui talento complessivo (la stella futura di Sophia Lillis su tutti) era tale da spingere lo sceneggiatore Gary Dauberman a inserire qualche loro spezzone anche in questa pellicola. Certo, tutto questo va forse a scapito dell’equilibrio del film, perché la lunghezza di It – Capitolo 2 è maggiore di quanto non si potesse chiedere ragionevolmente a uno spettatore investito ma non troppo, uno di quelli che non ha il libro in mano pronto a puntare il dito contro ogni deviazione non ortodossa della trama. Ma se forse non ha equilibro, anche questo capitolo 2, come già succedeva al primo, ha comunque un’anima ed è probabilmente quest’anima, più che la vera o presunta affinità all’originale,  che gli garantirà un posto nelle memorie di chi avrà la forza di vederlo

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    Fast & Furious: Hobbs & Shaw – Adrenalina e afa

    Jason Statham e Dwayne Johnson sono i protagonisti Fast & Furious: Hobbs & Shaw, spinoff della celebre saga con Vin Diesel. Alla regia il David Leitch di John Wick e Deadpool 2. In sala dall’8 agosto.

    Un po’ di adrenalina a risvegliare un agosto particolarmente sonnacchioso ai botteghini. Ci pensano Dwayne “The Rock” Johnson e Jason Statham, i due eroi d’azione protagonisti di Fast & Furious: Hobbs & Shaw, spinoff della saga che ha reso celebri Vin Diesel e il compianto Paul Walker. Alla regia un vero specialista, David Leitch, ex coreografo di scene action che in passato ha diretto film come John Wick e Deadpool 2.

    La trama, tessuta da Chris Morgan, sceneggiatore della serie principale, sembra voler colmare il gap – per la verità sempre più sottile –  che separa il franchise dal genere dei supereroi. Ecco allora comparire un villain metà uomo e metà macchina (Idris Elba), un Terminator moderno che si definisce un Superman nero, ma che sfoggia un armamentario più simile a quello di Batman. Il piano è semplice: scatenare un’epidemia sulla popolazione della terra in nome di una vaga e non troppo sensata rivoluzione tecnologica. Per placare la ambizioni neo-darwiniste del cattivo di turno intervengono i due componenti più diversi della gang di Fast & Furious, il cacciatore di criminali samoano Hobbs (Johnson) e l’ex agente segreto e killer Shaw (Statham). Stili diversi e qualche conto da saldare, i due si gettano (letteralmente) a capofitto in un’avventura dove è coinvolta pure la sorella di Shaw, anche lei agente segreto (Vanessa Kirby).

    Rispetto agli episodi della saga principale si segnala un ricorso meno ossessivo alle macchine-feticcio e una presenza più massiccia della componente umana nelle scene d’azione. E del resto il curriculum del regista non lasciava presagire altro. Ciò non toglie che nella prima parte il meccanismo funzioni, specie considerato che il film non ha sostanzialmente una trama, una trama sensata quantomeno. Allora Leitch decide saggiamente di non prendersi troppo sul serio e di calcare la mano sulla commedia e sulla sfida tra i due protagonisti, impegnati tanto a beccarsi tra loro quanto a riempire di botte i malcapitati avversari. E così il montaggio parallelo della prima sequenza ha il giusto livello di ironia e le scene d’azione sanno essere mozzafiato, anche se preferiscono di gran lunga l’effetto digitale alla vecchia arte dello stunt. Un contributo positivo arriva anche dalle tre scene cammeo del film. Ospiti d’eccezione il Deadpool del cinema Ryan Reynolds, la premio Oscar Helen Mirren e il comico americano Kevin Hart nel ruolo di uno spassoso maresciallo dell’aria.

    Ma il problema di Fast & Furious: Hobbs & Shaw è quello di ogni film della serie: quando cala il ritmo resta ben poco, se non lo scontato tema della famiglia. In questo caso succede nella seconda parte del film, nel viaggio alle radici del personaggio di Hobbs, nelle natie Samoa. Tra un haka prima dello scontro finale e, guarda caso, qualche problema con un fratello lontano, si va a parare sempre lì e si prega che torni presto il momento delle botte e dell’adrenalina. Il momento torna, e non c’è neanche troppo da attendere, ma quell’intervallo è letale nella percezione del film, perché ricorda che sotto il velo del caos i re degli incassi sono nudi e forse anche un po’ vuoti

     

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    Hotel Artemis: Il futuro in corsia

    Jodie Foster guida un cast d’eccezione nel futuro di Hotel Artemis, thriller fantascientifico dell’esordiente Drew Pearce. In sala dall’1 agosto.

    Un futuro distopico, le pareti claustrofobiche di un albergo-ospedale, un cast di livello. Sono questi gli elementi che hanno salvato dal dimenticatoio Hotel Artemis. Quella dell’esordiente Drew Pearce, infatti, è una pellicola di genere che in calce porta la data del 2018, ma che le logiche della distribuzione italiana hanno esiliato in una rovente domenica d’agosto dell’anno successivo, quando i cinema attirano più per l’aria condizionata che per la qualità dei film. Eppure a leggere la locandina qualche dubbio è lecito, perché tra i protagonisti c’è un’attrice di spessore indiscusso come Jodie Foster, un talentuoso attore televisivo come Sterling K. Brown, già vincitore di due Emmy, qualche comprimario di sicura affidabilità come Jeff Goldblum e l’ex wrestler Dave Bautista e una dark lady dall’aria esotica come la francese Sofia Boutella.

    La sceneggiatura, firmata dal regista, ci porta una Los Angeles squassata dalle sommosse dove Sherman il rapinatore (Brown) cerca di approfittare del caos per mettere a segno il colpo della vita. Il bottino non è quello sperato: una pallottola nel corpo del fratello-complice e un tesoro sottratto inconsapevolmente al boss dei boss (Goldblum). L’unica speranza, almeno a breve termine, è l’Hotel Artemis, ospedale clandestino per malavitosi, dove provare a salvare il fratello e a disinnescare la rabbia del boss. Lì troverà l’infermiera Thomas (Foster), anziana manager, che soffre la scomparsa del figlio e una forma grave di agorafobia, ma anche altri ospiti, dal colosso-infermiere Everest (Bautista) alla spietata killer internazionale Nice (Boutella).

    Le pareti di questo bizzarro ospedale automatizzato celano angoli non privi di fascino. Merito principalmente della fotografia di Chung-hoon Chung, maestro coreano delle luci di tanti film culto, da Oldboy a Lady Vendetta. Mentre la regia di Pearce sembra ispirarsi al John Carpenter di Distretto 13 e a certi franchise moderni, forse meno ispirati ma di certo più redditizi, come i film di John Wick e della Notte del Giudizio. Il risultato è frustrante, perché Hotel Artemis, pur avendone tutto il potenziale, non riesce a diventare quello che avrebbe potuto essere, un oggetto di culto del cinema indipendente di genere.

    Il soggetto non brilla per originalità ma è abbastanza solido da garantire novanta minuti di intrattenimento. Una Jodie Foster invecchiata più dal trucco che dal tempo, che passeggia per i corridoi in ciabatte ascoltando vecchie canzoni su un giradischi portatile, ha per le mani un personaggio che potrebbe restare impresso nelle memorie degli spettatori, però la regia non gira a dovere, vittima forse di una certa inesperienza. E così il peso emotivo del personaggio resta tutto sulle spalle della due volte premio Oscar che, pur sfoderando un’ottima interpretazione, avrebbe potuto incidere molto di più, se solo avesse potuto contare sul giusto supporto. Sarebbe bastata, ad esempio, una gestione più sapiente ed emozionale della colonna sonora, o un maggiore estro visivo in alcune delle scene clou, come i flashback sul figlio o la scena finale, che diventano esempi lampanti del potenziale inespresso del film.

    E quanto agli altri personaggi, i dialoghi finiscono per evidenziare il peso degli stereotipi piuttosto che convincere lo spettatore a ignorarlo. E così, Jodie Foster a parte, tutto gira verso un finale prevedibile e previsto, quando sarebbero bastate una regia e una scrittura meno contratte per riuscire a trasformare proprio quella tara del già visto in un confortevole plusvalore.

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    Men in Black: International – Le stelle lontane non brillano

    Chris Hemsworth e Tessa Thompson sono i nuovi protagonisti di Men in Black: International, spinoff della saga con Will Smith. Alla regia F. Gary Gray. In sala dal 25 luglio.

    Vestito nero, cravatta nera, occhiali da sole scuri, sempre pronti a salvare il mondo. Gli abiti non faranno il monaco ma di certo fanno il sequel, o lo spinoff per essere più precisi. Parliamo di Men in Black: International, nuovo filone di una saga resa celebre a partire dagli anni 90 da Will Smith e Tommy Lee Jones. Nella migliore tradizione degli spinoff, quest’ultimo capitolo diretto da F. Gary Gray (Il negoziatore, Fast & Furious 8), lascia intatto il concept originale, mutuato dall’omonimo fumetto di Lowell Cunningham, cambiandone però gli interpreti. Niente Will Smith e Tommy Lee Jones, dunque, perché stavolta scendono in campo il Thor del cinema, Chris Hemsworth, e la rising star Tessa Thompson, anche lei reduce dai successi di casa Marvel.

    Sono pure specializzati in fumetti i due sceneggiatori, Art Marcum e Matt Holloway (Iron Man), che ci raccontano delle imprese dell’Agente H (Hemsworth), accreditato come salvatore del mondo, ma oggi ridotto a pigro avventuriero incapace di lavorare in coppia. L’agente M (Thompson) è invece un’entusiasta aspirante agente, che non vede l’ora di scoprire i segreti dell’universo. Attorno a loro girano il consueto serraglio galattico, da un superiore super-protettivo (Liam Neeson), a una mercante d’armi con tre braccia e i capelli a strisce (Rebecca Ferguson), passando per alieni di ogni forma e colore e minacce cosmiche più o meno minacciose.

    Gli ingredienti del franchise ci sarebbero tutti, a cominciare da una coppia di protagonisti dalla chimica innegabile. Eppure la pozione sembra decisamente meno magica rispetto ai ricordi idealizzati del passato. Difficile dare la colpa all’intreccio in sé e per sé, che riserva pure qualche sorriso e qualche dignitoso colpo di scena. È solo che sa tutto un po’ di già visto, e il deja vu persistente finisce per appesantire un universo divertente e potenzialmente colorato come quello di Men in Black. Certo, gli anni passano per tutti. E con gli anni si sono persi sia gli accenni satirici dei primi film diretti da Barry Sonnenfeld, sia la dinamica da buddy cop movie. Al loro posto è arrivata una maggiore attenzione per i più piccoli, forse (il personaggio cartoonesco di Pawny, che in originale è doppiato dal comico Kumail Nanjiani) e anche qualche scena alla moda, come la sequenza iniziale che omaggia un certo cinema degli anni 80, da E.T. ai Gremlins. Ma forse è troppo poco e la regia piatta di Gray finisce per affidarsi solo al talento dei due protagonisti, con un Hemsworth che ancora una volta dimostra una propensione alla commedia che le logiche hollywoodiane spesso sacrificano sull’altare della sua bellezza, e una giovane Tessa Thompson che mostra grande adattabilità ai vari registri con cui si è confrontata.

    Nonostante il loro impegno Men in Black: International non riesce a ridare lustro a una saga che ad oggi sembra sempre più opaca, quasi come quei vestiti neri che danno il nome a tutto.

     

     

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    Serenity – L’isola dell’inganno: Nella rete del pescatore

    Matthew McConaughey torna in scena con Serenity – L’isola dell’inganno, un thriller letteralmente sui generis firmato dal regista-sceneggiatore Steven Knight. Nel cast anche Anne Hathaway e Diane Lane. In sala dal 18 luglio.

    L’esca è in acqua ma stavolta, più di altre, è difficile che il pesce abbocchi. L’esca in questione è il fisico scultoreo di Matthew McConaughey, il pesce sarebbero gli spettatori, l’amo nascosto invece porta il titolo di Serenity – L’isola dell’inganno. Parliamo dell’ultimo film di Steven Knight, già sceneggiatore di discreto successo, che alla voce regia fa registrare quantomeno un film di culto, il brillante Locke, dramma umano rinchiuso nel telaio di un’automobile e recitato tutto al telefono.

    Stavolta però, alla confortevole claustrofobia di un sedile anatomico, Knight, autore ovviamente anche della sceneggiatura, preferisce gli spazi aperti di un mare sconfinato, dove Baker il pescatore (McConaughey) porta in giro ricchi turisti dediti alla pesca del tonno. In realtà però sotto la superficie piatta delle acque sembra nascondersi qualcos’altro, dalla sfida tra l’uomo e un pesce immenso soprannominato Giustizia, fino all’arrivo di una femme fatale (Anne Hathaway) che vorrebbe disfarsi del marito (Jason Clarke). Al piatto già ricco si aggiungono anche il passato nebuloso del protagonista e l’insistenza di un misterioso personaggio (Jeremy Strong) che lascia intendere uno sfondo sovrannaturale.

    La sensazione però non è delle più piacevoli. E se Serenity – L’isola dell’inganno vorrebbe essere spiazzante in realtà finisce più che altro per disorientare. La sfida dell’uomo contro la natura suggerita dalle prime scene, dove dagli abissi emergono echi anabolizzati de Il vecchio e il mare di Hemingway, lascia presto il campo alle atmosfere solatie di un noir alla rovescia, immaginate una puntata di Baywatch scritta da James Ellroy. Ma non basta, perché la necessità di stupire finisce per avere la meglio non solo sull’estetica ma anche, forse, sulla ragione, e allora scopriamo, nel peggiore dei modi, che Steven Knight avrebbe probabilmente voluto scrivere un episodio di Black Mirror e non gliene è mai stata data la possibilità, almeno fino ad oggi.

    Il risultato è un guazzabuglio inevitabilmente pasticciato, dove le tre anime del film più che fondersi armoniosamente finiscono per fare a cazzotti. Ed è un peccato, perché se avesse puntato su uno solo dei tre spunti Knight sarebbe riuscito a mettere insieme un film convenzionale, di certo poco originale, ma sicuramente più dignitoso. E invece la parabola dell’ambizione finisce ancora una volta per tradire un esperto uomo di cinema, trascinando con sé un cast incolpevole e decisamente sprecato. A cominciare da McConaughey che mostra i muscoli spesso e volentieri ma che continua in una striscia negativa iniziata paradossalmente dopo il suo biennio d’oro, 2013-14, gli anni, per intendersi, di Dallas Buyers Club, di Wolf of Wall Street, della serie tv True Detective e del successo di Interstellar.

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    Spider-Man: Far from home – Un ragno a Venezia

    Tom Holland indossa di nuovo il costume dell’Uomo Ragno per Spider-Man: Far from home. Il regista Jon Watts dirige anche Jake Gyllenhaal, Samuel L. Jackson, Zendaya e Marisa Tomei. In sala dal 10 luglio.

    Si rialza il sipario del teatro Marvel. Ed è il più classico e allo stesso tempo il più nuovo degli eroi a fare gli onori (e gli oneri) di casa. Spider-Man: Far from home è il settimo lungometraggio che Hollywood dedica al tessiragnatele creato da Stan Lee e Steve Ditko, il secondo della gestione Marvel Studios. Il giovane e talentuoso Tom Holland incarna ancora il Peter Parker studente a New York e torna anche il regista Jon Watts, che aveva diretto il precedente Homecoming.

    Onori e oneri, dicevamo, perché questo è il primo film dell’Universo Marvel dopo gli scossoni sismici di Avengers: Endgame. E Peter Parker si trova, nella realtà come sullo schermo, a dover riprendere le fila della propria vita dopo la tragica battaglia contro Thanos. Quale migliore soluzione, allora, che non una gita scolastica in Europa, dove provare a dichiararsi all’amata MJ (Zendaya). Ma il relax dura poco, per gentile interferenza di Nick Fury (Samuel L. Jackson), del cupo Mysterio (Jake Gyllenhaal) e di una serie di mostri elementali che fanno a fette qualche città malcapitata: Venezia, Praga e Londra.

    Archiviata – e speriamo per un po’ di tempo – la stagione dei film tanto intasati da eroi da non far filtrare la trama, il regista, gli sceneggiatori Chris McKenna ed Erik Sommers e il produttore Kevin Feige confezionano una chicca del genere supereroistico che andrebbe fatta studiare a molti colleghi di Hollywood. Perché l’avventura del giovane Spider-Man riesce nel doppio intento di mantenere il sense of wonder senza per questo rinunciare a tutto quello che uno spettatore del cinema dovrebbe meritarsi, ovvero trama, dialoghi e buoni personaggi. Cominciamo da questi ultimi, perché c’è un ottimo apparato comico, dove eccelle lo spassoso Jacob Balaton (nel ruolo del migliore amico di Peter, Ned) ma a cui partecipano praticamente tutti, dal premio Oscar Marisa Tomei all’affermato regista Jon Favreau. E a questa leggerezza, che è il marchio di fabbrica dei film dei Marvel Studios, si affianca, per una volta, un villain convincente. Il merito va forse ricercato nelle origini fumettistiche, la galleria di cattivi dell’Uomo Ragno è tradizionalmente una delle migliori, forse la migliore dopo quella di Batman. Ma se anche un villain marginale come l’Avvoltoio, antagonista del film precedente, riusciva a trovare su pellicola un’interpretazione brillante e originale allora va riconosciuto il merito anche a producer, regista, autori e interpreti.

    Tocca passare alla trama, adesso. Trama che non riveleremo per evitare spoiler. Sappiate solo che dietro al ritmo del thrilling e al muro della metafora, Spider-Man: Far from home regala anche degli spunti di riflessione. Una riflessione, quantomai attuale, sul mondo delle fake news, sulla difficoltà a distinguere tra realtà e apparenza. E qui rientra anche la considerazione sui dialoghi e in generale sui toni del film. Della leggerezza dei prodotti Marvel abbiamo detto, ma molto spesso nei film di questo articolato universo narrativo, l’alternanza tra toni comici e drammatici si era rivelata come un punto di estrema fragilità. E se pure il fattore “Wow” aveva distratto i fan più accaniti (praticamente tutti) i passaggi grossolani e scontati restavano, impressi impietosamente su pellicole spesso osannate a sproposito. E invece Spider-Man: Far from home eccelle nell’ormai rara qualità di trovare un’armonia ai suoi cambi di registro, cosa che in passato era riuscita solo a chi aveva abbracciato con più convinzione unicamente la natura comica (il primo Guardiani della Galassia ma anche Ant-Man) o a chi era riuscito a contenere l’invadenza del fattore ironico (l’originale Iron Man o Captain America: Winter Soldier)

    Tutto considerato Spider-Man: Far from home resta uno degli episodi più riusciti dell’Universo Cinematografico Marvel, un episodio che più di tanti altri meriterebbe una riconferma e non solo per quel finale in crescendo affidato a una delle due scene post-credit. Una sequenza, non c’è bisogno di specificare, che nessuno spettatore dovrebbe perdersi, anche a costo di spendere 5 minuti del proprio tempo a dare una scorsa ai titoli di coda.

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    La mia vita con John F. Donovan: Dolan sbarca a Hollywood

    Il regista di culto Xavier Dolan torna con la sua prima opera hollywoodiana, La mia vita con John F. Donovan. In scena un cast di stelle, da Kit Harington a Natalie Portman, da Susan Sarandon a Kathy Bates. In sala dal 27 giugno.

    Xavier Dolan, 30 anni compiuti da poco, due riconoscimenti di prestigio a Cannes e l’amore incondizionato di gran parte della critica specializzata. Per il giovane cineasta canadese resta una sola vetta da scalare, Hollywood. E La mia vita con John F. Donovan è stato il primo, tormentato tentativo per riuscire in questa impresa, in vista, un giorno, del traguardo più ambito: la statuetta dell’Oscar. Il volo tra i cieli glamour costellati di stelle del cinema, non è stato però privo di turbolenze e vuoti d’aria, tra un montaggio complesso che è costato l’esclusione anche a un’attrice celebre come Jessica Chastain, fino all’accoglienza fredda della platea del festival di Toronto, dove il film è stato presentato in anteprima.

    Ma in La mia vita con John F. Donovan Hollywood non è solo il fine ma anche il mezzo. In questa sua prima escursione statunitense Dolan sceglie infatti di calare i suoi personaggi tra i meandri ipocriti della città di celluloide, dove la popolarità è moneta sonante e vale spesso più della verità. E così la giovane star di una serie tv John Donovan (interpretato dalla giovane star della serie tv più seguita, Kit Harington del Trono di Spade) si trova a nascondere non solo la sua omosessualità, ma anche il bizzarro e innocente carteggio con uno dei suoi fan più accaniti, il giovane Rupert (il bravissimo Jacob Tremblay di Room). E attorno a queste lettere, e al suo contenuto complesso, si costruirà non solo la sua ascesa e la sua caduta, ma anche il rapporto difficile con la madre (Susan Sarandon) e con l’agente (Kathy Bates). Ma pure quello di Rupert, giovane attore bambino, con la sua madre, attrice mancata a sua volta (Natalie Portman).

    Scritto a quattro mani con Mathieu Denis La mia vita con John F. Donovan non stupirà lo spettatore per la profondità della sua analisi, né per l’originalità delle sue accuse. Ma il cinema di Dolan, anche nei suoi episodi meno felici, ha un tocco delicato che riesce ad arrivare al cuore dello spettatore. Quest’ultimo film, con tutto il suo iter travagliato, non si discosta troppo da questa caratteristica, sebbene, come succedeva pure con il precedente È solo la fine del mondo, la lama dell’emozione non affonda tanto, come succedeva nei film della sua fase pre-celebrità, dal capolavoro Laurence anyways allo splendido Mommy. Ma i precedenti illustri non scoraggino i fan della prima ora, né gli appassionati di cinema in generale, perché l’utilizzo brillante della musica è quello degli episodi migliori. Dolan continua a costruire intere scene attorno a una canzone, e non parliamo di sofisticate composizioni pescate dalle teche più polverose, ma di canzoni, per così dire, di uso comune, com’era per le note di Andrea Bocelli in Mommy, o per Dragostea in È solo la fine del mondo.

    Quanto all’altro grandissimo punto di forza del giovane Dolan, la direzione degli attori, ci troviamo di fronte a un risultato a targhe alterne. Se il lavoro con volti noti come Harington e Portman era forse migliorabile, l’intesa con il piccolo Tremblay, con due mostri sacri come Bates e Sarandon, ma anche con tanti attori impegnati in ruoli secondari (da Amara Karan nel ruolo dell’insegnante a Jared Keeso che incarna il fratello di John) è il solito, piccolo miracolo che regala perle di tenerezza e un’infinità di sfumature. In definitiva se anche La mia vita con John F. Donovan potrà essere un giorno considerato il film peggiore di Dolan è anche vero che l’idea di cinema del canadese è così potente da emergere con forza anche negli episodi meno riusciti, che sono quindi meno riusciti solo in confronto con le più ambiziose opere precedenti, non certo nel senso assoluto del termine. Di certo La mia vita con John F. Donovan potrebbe essere un buon punto di inizio per scoprire uno dei registi più importanti del decennio e, chissà, forse del secolo.

     

     

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    Rapina a Stoccolma: La storia di una sindrome

    Rapina a Stoccolma racconta il curioso fatto di cronaca che diede origine alla sindrome che porta il nome della capitale svedese. Robert Budreau dirige Ethan Hawke e Noomi Rapace. In sala dal 20 giugno.

    La sindrome di Stoccolma non è una novità per il cinema. Dal John Q. di Denzel Washington all’Al Pacino di Quel pomeriggio di un giorno da cani, passando per Il mondo perfetto di Clint Eastwood. Ma il legame che si sviluppa tra chi commette e chi subisce un crimine prende il suo nome da un fatto di cronaca che già l’epigrafe del film non esita a definire assurdo. Rapina a Stoccolma, il film diretto da Robert Budreau e interpretato da Ethan Hawke, racconta i sei giorni che sconvolsero la Svezia nel lontano 1973, pur cambiando nomi e situazioni con un escamotage che permette così di inserire qualche elemento prosaico, a cominciare da una storia d’amore, senza offendere i diretti interessati e i loro eredi.

    Lars Nystrom (Hawke) è un fuorilegge con la fissa dell’America che inscena una rapina in banca con l’idea di prendere degli ostaggi. L’obiettivo è quello di chiedere in cambio la liberazione di un amico e collega rapinatore (Mark Strong). Di mezzo ci finiscono tre sfortunati dipendenti, tra cui Bianca (Noomi Rapace), impiegata modello e madre di famiglia. Tenuti sotto scacco dalle forze dell’ordine, che non vogliono permettere la fuga nonostante le promesse di liberazione degli ostaggi, il gruppo passerà 130 ore dentro la banca, finendo per fraternizzare, nonostante la minaccia delle armi e soprattutto il rischio di un imminente blitz della polizia.

    Budreau, anche sceneggiatore della pellicola, vorrebbe portare alla luce la vena grottesca che si nasconde nella miniera della storia, un’operazione che era riuscita in passato a film come il recente Elvis & Nixon. La sensazione, però, è che l’esplosivo faccia cilecca. Nonostante la generosità e la dedizione del cast, Hawke in primis, Rapina a Stoccolma rinuncia alla cronaca senza riuscire a spiccare il volo con le ali della commedia. E allora la sequela di eventi inverosimili si susseguono sullo schermo senza creare emozioni e senza provocare sorrisi. E se a volte il pubblico sentirà il senso di oppressione dell’ostaggio, quello che mancherà prima di tutto sarà proprio la sindrome di Stoccolma, ovvero la base su cui è costruito il film. Difficile infatti parteggiare per i criminali di fronte a una scrittura così piatta e a una regia priva di ritmo.

    E se i rapitori non rapiscono anche la modesta durata, poco più di 90 minuti, assume le sembianze di un crudele e insensato stillicidio, tanto che viene più volte voglia di guardare l’orologio a dispetto della pazienza incarnata sullo schermo da Rapace e soci. In sostanza Rapina a Stoccolma non è altro che il classico film estivo, messo lì a riempire il palinsesto di sale mezze vuote. E questo nonostante sia tratto da una storia vera e intrigante e che possa contare su un cast di buon livello, che avrebbe meritato un film migliore.

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