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    Si alza il vento: La fine del sogno

    Hayao Miyazaki si ritira dalle scene e affida il suo addio a Kaze Tachinu. Testamento artistico di struggente poesia. In sala dal 16 settembre.

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    Il tempo degli addii, la fine del sogno, il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Per Hayao Miyazaki quel tempo è arrivato oggi con Kaze Tachinu, il film al quale l’icona dell’animazione del Sol Levante affida un lungo e struggente commiato.
    Miyazaki  abbandona la sua terra di macchine volanti, totori, maiali parlanti, ‘valli incantate’ e isole erranti e diventa adulto.
    Il sapore amaro dell’addio –  ufficializzato dal presidente dello Studio Ghibli alla 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dove il film fu presentato in concorso – era già tra le righe di questa storia, Si alza il vento, in cui il sogno di Nausicaa si infrange sul realismo storico di Porco Rosso.
    Miyazaki firma il suo ritiro dalle scene con un racconto che assume i toni del melodramma: la vita del giovane Jiro Horikoshi, aspirante progettista di aeroplani il cui destino si intreccia a quello dell’ingegnere aeronautico Gianni Caproni, diventa l’occasione per narrare una delle decadi più buie del Giappone, quella che va dagli anni ’30 ai ’40.
    Dal terremoto di Kanto del 1923 alla Grande Depressione, dalle rivoluzioni al nichilismo dei tempi moderni, in un susseguirsi di guerre, carestie, morte, devastazione: nel mezzo lo sfortunato amore tra Jiro, il primo dei personaggi di Miyazaki a ispirarsi a una figura realmente esistita, e Nahoko, vera e propria eroina romantica da melò d’altri tempi.
    La passione per il volo – soprattutto umano –, l’amore per l’Italia, gli omaggi al Bel Paese ma anche il nuovo sentire della disillusione, della distruzione, della fine di ogni desiderio: c’è tutto in questo commosso congedo, che pur non rinunciando alla dimensione da favola, assume la forma di un testamento artistico e non solo. Perché forse raccontare di Jiro Horikoshi era il progetto di una vita; Hayao lo inseguiva da quando era giovane, ricerche su ricerche, materiale su materiale accumulato in anni di studi approfonditi.
    Non poteva che toccare a lui il compito quindi di raccogliere l’ultimo volo artistico di un maestro, che ha fatto della fantasia la sua fonte inesauribile di volti e protagonisti diventati cult. E che in Jiro e Nahoko trovano il loro naturale completamento: non più solo anime sospese, ma persone reali arse dalla follia del sogno. “Desiderare ardentemente qualcosa di troppo bello può distruggere. Accostarsi alla bellezza può richiedere un prezzo da pagare. Jiro sarà distrutto e sconfitto, la sua carriera di progettista interrotta, ma  – a detta del suo creatore – resta un uomo di grande originalità con un talento non comune”.
    Lo spazio di un saluto, il tempo di un sogno e il salto consapevole verso la vita reale. Chapeau.

    Elisabetta Bartucca

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    La mia classe: Loro ci mettono la faccia!!

    Daniele Gaglianone e Valerio Mastandrea orchestrano una interessante operazione di cinema del reale. Una classe di italiano per stranieri irrompe nelle nostre sale e in un mondo del cinema che non può non fare i conti con la realtà della vita.

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    Cosa succede se la vita irrompe prepotente nella finzione del cinema, e cosa succede se il cinema prova ad imbrigliare, veicolare, restituire il senso vero di fatto realmente accaduto?
    Domande di notevole complessità e spessore che un film prova a porsi, cercando non tanto risposte ma una sfida, quella si.
    Daniele Gaglianone nelle sue note di regia sottolinea: “Fare questo film è stata un’esperienza unica: tutti i giorni ripetevo sul set che stavamo rischiando grosso ma ne valeva la pena, perché il film o funzionava od era inguardabile. Non c’erano vie di mezzo. Mi ha accompagnato e dato coraggio, la riflessione di un poeta e scrittore russo del Novecento, Daniil Charms, secondo cui le uniche poesie che vale la pena scrivere sono quelle con dei versi che se si prendono e si tirano contro una finestra, il vetro si deve rompere.”
    Ma dove sta il rischio contenuto nel film?
    La mia classe ri-costruisce una classe di italiano per stranieri, in cui uno straordinario prifessore come Valerio Mastandrea insegna italiano ad un gruppo di italiani di seconda generazione, immigrati, rifugiati, uomini e donne accomunati dal fatto di avere tutti una incredibile carica di drammaticità alle spalle, ma tutti o quasi dotati di una propositivuta’ entusiasmante.
    Dunque un attore –vero– impersona un maestro –finto– che dà –finte– lezioni di italiano ad una classe di stranieri –veri– che mettono in scena se stessi. Sono extracomunitari che vogliono imparare l’italiano, per avere il permesso di soggiorno, per integrarsi, per vivere in Italia. Arrivano da diversi luoghi del mondo e ciascuno porta in classe il proprio mondo. Ma durante le riprese accade un fatto per cui la realtà prende il sopravvento. Il regista dà lo ‘stop’, ma l’intera troupe entra in campo: ora tutti diventano attori di un’unica vera storia, in un unico film di ‘vera finzione’. Uno degli attori -fatto realmente accaduto prima dell’inizio della lavorazione – viene allontanato dal set in fase di allestimento perché sprovvisto di permesso di soggiorno. Cosa faranno gli altri, colleghi, amici, troupe, regista, produzione, il Maestro Mastandrea?
    Questo sta nel cuore di un film di cui non serve svelare altro che la straordinaria forza, creativa, espressiva, umana. Ecco, il coraggio per il circo del cinema di interrogar si sulla vita reale, innervandola con quella ri-costruita ogni giorno, e ancora e ancora e ancora, da più di cent’anni sui set di tutto il mondo. Una bella prova per gli attori non attori, per i professionisti come Valerio Mastrandrea, sempre piu’ capace di orientare in maniera personale e civile la sua carriera, e per tutto il carrozzone di una produzione cinematografica, in cui il regista decide di metterci la faccia.

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    Philomena: Immensa Judi Dench per Frears

    In sala dal 19 dicembre il film che ha incantato Venezia. Dench sublime in una prova da Oscar.

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    Non perde mai il suo inconfondibile sense of humour Steven Frears che riesce a raccontare con tocco leggero la storia durissima di Philomena.
    Helen Mirren presta il volto ad una ragazza madre che cinquanta anni dopo prova disperatamente a rintracciare suo figlio, strappatole e dato in affidamento chi sa a chi in una delle tante Case Magdalene, istituti femminili per ragazze ‘immorali’, gestiti da suore.
    Il concetto di immorale prevedeva l’esser madre nubile, troppo avvenente o troppo brutta, essere vittima di uno stupro…
    Il concetto di accoglienza prevedeva che le ragazze fossero impegnate quotidianamente in lavori di lavanderia estenuanti; il duro lavoro, le privazioni e la preghiera costituivano il viatico verso la redenzione.
    La storia di Philomena e’ una storia vera, ma lo scopriremo solo nel finale, dopo lunghi ed esilaranti siparietti sulla letteratura dal reader’s digest, tra un ex giornalista di punta della BBC (Steve Coogan) ed una gentile signora irlandese (Judi Dench) alla ricerca di suo figlio.
    La pellicola di Frears, applauditissima nelle proiezioni del concorso veneziano, si candida ad un riconoscimento ma potrebbe tranquillamente arrivare al pubblico senza, grazie infatti alle intense interpretazioni ed alla simpatia dei protagonisti di questa amarissima vicenda il riscontro sarà inevitabile.

     

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    La prima neve: La ‘fiction vera’ di Andrea Segre

    Il regista di doc. come ‘Mare chiuso’ o ‘Il Sangue Verde’ affronta la seconda regia di finzione partendo dal ‘viaggio’ che molti compiono o vorrebbero compiere nella loro vita…

    Potrebbe esser definito un film necessario, uno spaccato della nostra realtà che parte dalla cronaca per raccontare come solo la finzione può fare una bella storia di amicizia, integrazione, fratellanza, amore.
    Molto più semplicemente ‘La prima neve’, seconda regia di fiction per il bravo documentarista Andrea Segre, e’ un racconto onesto, crudo ma capace di momenti di grande poeticità.
    Sullo sfondo di un paesaggio montano incantevole si muovono i personaggio che Segre avvicina pian piano insieme allo spettatore. Le vite di Dani, Michele, Elisa, Pietro, Fabio, oltre ad essere quelle interpretate in maniera credibile dai protagonisti Jean Christophe Folly, Matteo Marchel, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston e il piccolo Peter Mitterunzer, sono sovrapponibili a quelle di tanti spettatori, per intensità, drammaticità, corrispondenza al vero.
    Si conferma regista del vero Segre, che già ci aveva abituati al racconto personale, con il DOC (su tutti Il Sangue verde) ma anche con la sua opera prima di finzione (Io sono Li). La vicenda di Dani, in fuga dal Togo e dalla guerra nei luoghi incantati della Val di Mocheni, e’ il pretesto per raccontare il viaggio, quello fisico, quello mentale, quello drammatico di molti nati in luoghi svantaggiati della terra e di molti, legati ad un territorio incantato che tuttavia li schiaccia, li obbliga a fare i conti con le radici, la perdita, la voglia di un riscatto. Un film doveroso e bello quello di Segre che dopo il successo di pubblico e critica alla Mostra del cinema di Venezia, arriva in sala con tutto il suo carico di umanità.

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    Gravity: Clooney cowboy spaziale per Cuaron

    Fuori concorso apre la Mostra di Venezia il film del regista messicano, con Clooney guascone spaziale e la Bullock madre astronauta in rotta per la Terra. In sala dal 3 ottobre.

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    Guardare Gravity di Alfonso Cuaron con i piedi ben saldi sulla terra e’ davvero un peccato…
    Già, perché la passeggiata spaziale del regista messicano fin dai primi fotogrammi catapulta lo spettatore in un mondo affascinante a gravità zero, nel posto meno ospitale per la vita umana eppure probabilmente il più affascinante per il cervello di tutti noi.
    Dal sogno alla fiaba, passando per l’incubo estremo, la visione ‘altra’ della Terra vista da un non luogo come lo spazio non può non aver sfiorato tutti almeno una volta nella vita.
    Evidentemente questo accade anche nella testa ed alla fantasia di un regista come Cuaron che cosi decide di accostare le vicende di un astronauta alla sua ultima missione, che si gode la sua ultima ‘passeggiata’ spaziale insieme ad una serissima ma neofita scienziata, molto simile a Bridget Jones quando indossa la tuta spaziale.
    Gravity racconta una missione di routine, certo come può essere di routine avvitare un bullone a 300 km d’altezza (le tipiche orbite delle missioni Space Shuttle), con un rischio evidente, quello che ci sia una collisione con la ‘spazzatura spaziale’, quei detriti che ogni missione genera e che vagano nello spazio a circa 7,7 km/s, cioè 10 volte la velocità di un proiettile. A quelle velocita’ siderale l’energia cinetica di una piccola particella (ricordate il nostro bullone?), è uguale a quella di una grossa pallottola. Figurarsi allora se esplode un satellite sulla linea orbitale di George Clooney, il Comandante Matt Kovalsky, cowboy dello spazio, in attività extra veicolare con Sandra Bullock, nei panni spaziali del Dr Ryan Stone, ufficiale scelto quanto impacciato ed alle prese con la nausea da spazio… Una Bridget in tuta da astronauta insomma.
    Effetti speciali, green screen – purtroppo manca l’utilizzo del mitico Ilyushin 76 MDK, l’ aereo a gravita’ zero utilizzato per le riprese di “Apollo 13” – e tutto l’occorrente per confezionare una storia che se ha la sua base nello spazio, tuttavia ha i piedi ben piantati sulla terra, evidente allegoria di una donna alle prese con il bisogno di dare una direzione alla sua vita, di elaborare una perdita, di guidare nel modo più sicuro possibile verso casa…

    Titta DiGirolamo

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    Sacro Gra: Storie di confine

    Il Grande Raccordo Anulare protagonista di un suggestivo viaggio ai confini del tempo e dello spazio. Così Gianfranco Rosi porta il suo cinema del reale al Lido di Venezia.
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    Esplorare, scoprire, viaggiare tra le sfumature di una umanità brulicante, varia e inedita. Gianfranco Rosi continua il suo vagabondaggio tra terre di nessuno, luoghi di confine, spazi quasi sospesi in un angolo di mondo; ma questa volta la frontiera si trova proprio vicino casa, a Roma. Il regista di “Below Sea Level” trasforma i settanta chilometri del Grande Raccordo Anulare in un ricettacolo di tipi umani e l’anello autostradale che circonda la capitale assume lo stesso valore del deserto americano dei drop out (“Below Sea Level”), o del Messico alla mercè delle bande del narcotraffico (El Sicario, room 164).
    Un botanico in guerra con le larve che minacciano la sua oasi adagiata ai confini del raccordo,  un nobile piemontese e la figlia laureanda in un monolocale ai bordi del Gra, un principe che trasforma il suo castello a una delle uscite in set cinematografico, bed & breakfast o sala convegni, un barelliere del 118, un anguillaro sulle rive del Tevere: sono solo alcuni dei protagonisti di “Sacro Gra”, un aggirarsi di vite ai bordi della città eterna.
    Cinema verità che indugia tra cavalcavia, code di auto imbottigliate, luci, greggi al pascolo nelle campagne limitrofe,  bizzarre maschere di una realtà suburbana. Rosi accompagna lo spettatore in un pellegrinaggio ai confini del Grande Raccordo Anulare, in quel sottilissimo spazio tra dentro e fuori che è da sempre fonte di infinite suggestioni cinematografiche.

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    L’intrepido Amelio e la sua poesia sui tempi bui

    Antonio Albanese diretto da Amelio riesce ad interpretare un ruolo surreale che tuttavia racconta in modo drammaticamente calzante l’Italia della crisi.

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    Un uomo delle favole riesce a raccontare la realtà. Succede tutto sotto l’occhio osservatore di un maestro come Gianni Amelio che a Venezia porta in concorso L’intrepido, interpretato in maniera eccellente da Antonio Albanese. Il regista vince la sua sfida quando affronta l’oggi con un approccio non cronachistico ma come solo un romanziere può fare.
    Non ci sono sconti alla nostra società liquida, alle generazioni senza futuro, alla drammatica carenza di lavoro, tutt’altro. Amelio non le manda a dire ai sindacati, alle istituzioni lontane, distanti anni luce dalla corsa ad ostacoli che il suo chapliniano protagonista affronta nel suo difficile ruolo di ‘rimpiazzista’.
    Non esiste – ancora temiamo – il ‘superprecario’ che di mestiere sostituisce ad ore altri lavoratori, ne per impegni familiari improvvisi, malattie, lutti ecc ecc non può recarsi al lavoro e ha bisogno di un sostituto.
    Il ‘rimpiazzista’ Albanese non si trova nelle categorie della riforma dei contratti di lavoro, per fortuna, ma potrebbe esserci, probabilmente in nuce esiste già nella vita o nel futuro di qualche italiano. Il pregio del racconto di Amelio, durissimo e al tempo stesso capace d’essere fiabesco, sta tutto nel seguire il viaggio di Albanese tra mille occupazioni, indugiando sul sorriso, sulla sua voglia di fare, sul suo inguaribile ottimismo che spaventa certo, come tutte le cose belle che stridono con una realtà orrenda come quella dell’Italia al tempo della crisi.
    Disgregata la famiglia, affetti alla deriva – maciullati da necessità quotidiane basiche, da pensieri bassi come il fatidico affitto o la quarta settimana – quel che resta ad Antonio il rimpiazzista e’ l’amore per il figlio, problematico sassofonista, in preda agli attacchi di panico.
    Il film sta tutto in due frasi che amorevolmente Antonio ‘regala’ al figlio, la prima sugli attacchi, che colpiscono anche lui alla mattina, ma che poi “passano, e vado avanti perché anche loro hanno paura di me…”; la seconda sul privilegio di “fare un lavoro che ti piace per vivere…”.
    Spaventerà chi ha paura di guardare il buio grazie alla flebile luce della poesia, guidati da un grande maestro ed il suo ottimo attore!

    Di Titta DiGirolamo

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    Emozionante il cinema civile di Costanza Quatriglio

    Evento Speciale della 70′ Mostra e’ “Con il fiato sospeso”, diretto e Prodotto da Costanza Quatriglio, con Alba Rorwacher e la voce narrante di Michele Riondino.
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    Torna al Lido il cinema del reale di Costanza Quatriglio. La regista siciliana che dieci anni fa aveva portato in laguna il making of de ‘L’isola’, reduce dai successi di Cannes, e lo scorso anno aveva convinto con Terramatta (Nastro d’argento 2013), attraverso “Con il fiato sorpreso” affronta un caso di vero e proprio disastro ambientale.
    Università di Catania, laboratorio della Facoltà di Farmacia, strutture non a norma, condotte di aerazione malfunzionanti e conseguente intossicazione, lenta ma graduale degli specializzandi. Molti si ammalano, alcuni gravemente, fino a perdere la vita, come Emanuele Patané.
    Per lui, per i suoi colleghi e per tutti noi Costanza Quatriglio ha fortissimamente voluto realizzare questo film. Alla fine lo ha dovuto fare basandosi solo sulle sue forze, grazie ad un gruppo di lavoro agile e a due attori protagonisti che hanno creduto nella sua direzione ed hanno prestato gratuitamente la loro interpretazione ad un film importante.
    Si tratta di Alba Rohrwacher, che interpreta Stella, ricercatrice innamorata della sua disciplina e Emanuele, una voce fuori campo, prestata al racconto da Michele Riondino.
    La sensibilità e la capacità di rigorosa ricerca ed attinenza ai fatti – anche giudiziari, visto che la vicenda e’ al vaglio delle autorità per il reato di inquinamento ambientale e discarica non autorizzata – si conferma la cifra stilistica della Quatriglio che riesce ancora una volta ad informare ed emozionare, con un film ‘fuori formato’ non solo per quanto riguarda la durata (35 minuti), ma anche e soprattutto per la capacità di incidere nello spettatore a più livelli, dal sociale all’artistico.
    Il film ha appena trovato un coproduttore, un distributore, un megafono ed un sostegno importante in Marco Paolini e nella sua Jole Film, consentendoci di sperare in un suo arrivo in sala oltre che in numerose proiezioni speciali che, ci si augura, molti atenei e centri di produzione culturale vorranno ospitare per alimentare il dibattito su una delle numerose brutte storie del nostro Paese, che si spera possa insegnare tanto…

    Di Titta DiGirolamo

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    Joe: Nicolas Cage in un western dolente dal profondo sud

    La provincia violenta, l’istinto di sopravvivenza, odio, amore, famiglia, tutto questo contribuisce a formare un riuscitissimo affresco americano dal sapore tipico dell’epopea western dal titolo ‘Joe’, in concorso al festival di Venezia.
    Protagonista della convincente pellicola di David Gordon Green e’ un intenso Nicolas Cage; Joe e’ quello che si potrebbe semplicisticamente definire un looser, ma entrare in empatia con le sua visione della vita richiede davvero pochi istanti.
    Uomo di poche parole, una vita difficile alle spalle, futuro plumbeo all’orizzonte, Joe ha la capacità che hanno i cani sciolti di analizzare al volo uomini e situazioni, vedere il bene ed il male chiari al primo impatto. È una necessita’ per lui e la storia ci consegna questo fondamentale indizio fin dai primi fotogrammi.
    L’incontro con quello che diventerà un fantastico coprotagonista emotivo di tutto il racconto e’ casuale, ma cambierà il corso di molte vite.
    Cage padroneggia il personaggio non solo a livello espressivo ma anche mettendo al servizio della sceneggiatura la sua fisicita’, oltre ad un indubbio coinvolgimento emotivo che pare evidente. A pochi giorni dal nastro di partenza della rassegna lagunare il suo ruolo si consegna senza imbarazzo ai giurati che assegneranno tra una settimana o poco più la prestigiosa Coppa Volpi. L’ambito riconoscimento potrebbe premiare un western ‘moderno’ dal sapore antico e dolente, ma profondamente radicato nel cuore di un’America lontana dai riflettori delle megalopoli scintillanti e quindi per lo piu’ sconosciuta.

    Di: Titta DiGirolamo

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    L’arbitro: E se la vita fosse un campo di calcio

    Prende le mosse dall’omonimo cortometraggio del 2009 e approda alle Giornate degli Autori veneziane per stupire la platea. L’esordio di Paolo Zucca è un piccolo capolavoro del nostro cinema.
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    Qualcuno lo ha già definito un gioiellino. Ed in effetti, L’arbitro di Paolo Zucca ha tutti gli ingredienti per candidarsi a essere la sorpresa italiana delle veneziane Giornate degli Autori . Scritto a quattro mani dallo stesso regista e dalla scrittrice Barbara Alberti, questo singolare esordio in bilico tra serio e faceto, affonda le proprie radici nel cortometraggio omonimo, vincitore nel 2009 di un David di Donatello.

    Girato interamente in bianco e nero, L’arbitro racconta due cammini paralleli, tanto lontani nello spazio quanti simili per destino: da un lato la rivalità tra due piccole squadre sarde di terza categoria l’Atletico Pabarile e il Montecrastu, dall’altro l’ascesa professionale di Cruciani (Stefano Accorsi), arbitro ambizioso vicino a coronare il sogno della sua vita, ovvero arbitrare una finale europea.
    Zucca non si nasconde dietro facili populismi o furberie ideologiche, le sue intenzioni sono dichiarate sin dall’inizio del film, messe nero su bianco dalla frase di Albert Camus che campeggia in apertura: “Tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio”. Sarebbe troppo semplice, persino limitativo, liquidare L’arbitro come l’ennesima commedia sul calcio; per rendergli giustizia basta catturarne la sua essenza più profonda, spingersi oltre le dinamiche narrative, scoprire il velo e capire che qui il campo da calcio altro non è se non una metafora della condizione umana.

    Una straordinaria rappresentazione di vizi e virtù, pregi e difetti dell’Italietta di uomini e donne comuni declinata attraverso il linguaggio del buffo.
    Stefano Accorsi nei panni del direttore di gara Cruciani regala una delle sue migliori performance: elegante, composto, algido nell’esecuzione di quello che assume le sembianze di un rituale liturgico (il prepartita), divertente quando si esibisce in un balletto alla Fred Astaire. A fargli compagnia ci pensano dei compagni di gara altrettanto all’altezza: da Francesco Pannofino, arbitro bastardo, a Geppi Cucciari protagonista di un flirt d’altri tempi, che al suo amato cavaliere non risparmia certo colpi bassi, comica e favolistica allo stesso tempo.

    Il resto della partita si consuma su un campo di calcio tra le suggestioni ancestrali di una Sardegna in bianco e nero e un tempo sospeso: scandito dal fischio di inizio, impresso sui volti di una straordinaria galleria di caratteristi, consumato per rincorrere un pallone, scolpito nei bizzarri quanto riconoscibili sguardi di una piccola umanità che annaspa, esulta, protesta, addita, inciampa…

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