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    Still Alice: L’arte di perdersi

    Richard Glatzer e Wash Westmoreland danno forma ad una sceneggiatura tratta dall’ omonimo romanzo di Lisa Genova. Con una  Julianne Moore da Oscar. In sala dal 22 gennaio.

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    Sono molti i registi e gli sceneggiatori che nel corso degli anni hanno affrontato una tematica così delicata come l’Alzheimer. Oggi torna a parlarne la coppia composta da  Richard Glatzer e Wash Westmoreland in Still Alice, che oltre alla regia hanno dato forma ad una sceneggiatura pulita e lineare, tratta dall’omonimo romanzo di Lisa Genova.
    Una storia costruita intorno al personaggio principale, Alice, e alla sua famiglia. Un dramma lucido e privo di tirate retoriche, che deve gran parte della sua riuscita alla protagonista, una Julianne Moore, che regala ai posteri un’altra interpretazione sorprendente e carica di emozioni, quella che con ogni probabilità la porterà a conquistare il suo primo Oscar come Migliore Attrice, dopo esserci andata così vicino in passato con Lontano dal Paradiso, The Hours, Fine di una storia e Boogie Nights.
    La sua Alice, affetta da una forma precoce di Alzheimer (a soli 50 anni), è forte, intelligente ed estremamente vera.
    Forte di un copione solido, l’attrice statunitense riesce a trascinare il suo pubblico coinvolgendolo totalmente fin dai primi minuti del film e creando una sorta di intimità con lo spettatore, che vive in prima persona i primi sintomi dell’Alzheimer e che spererà fino alla fine in una sua guarigione.
    Sostenuta da un cast all star, tra cui Alec Baldwin (con cui torna a recitare dopo la serie 30 Rock) e Kristen Stewart, la Moore si cala perfettamente nel personaggio, riuscendo a raccontarne i drammi, l’incapacità di reagire e “l’arte di perdersi”: la sua interpretazione regala brividi e vuoti allo stomaco.
    Merito dei registi (oltre alla scelta del cast) quello di  trasmettere, al di là del grande schermo, lo stesso senso di perdita di Alice… lo stesso vuoto. Qualcosa sembra essere andato via per sempre insieme a questa storia.
    Still Alice non è un film dalla lacrima facile, o meglio, non è questo il suo scopo. Il messaggio è molto chiaro ed è ribadito dalla stessa protagonista durante un incontro sull’ Alzheimer: l’impossibilità di “agire” e di “ricordare” porta per forza di cose ad imparare l’arte di lasciare andare, di rassegnarsi a perdere pezzi importanti della propria vita.  Continuare a lottare è l’unica arma per sopravvivere.

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    Largo Baracche: Ragazzi di vita in cerca di un’opportunità

    Giovani in cerca di un futuro nella Napoli dei Quartieri Spagnoli. Gaetano Di Vaio sceglie di raccontarli con un documentario, premiato come Migliore Doc italiano all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma.

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    Il successo del fenomeno Gomorra, prima letterario poi cinematografico (guai a definire ‘televisiva’ la serie, anche quella è cinema a tutti gli effetti), ha avuto un merito inconfutabile, su tutti: fare luce sulla realtà criminale di una città, Napoli, popolata anche (ma non solo) da giovani in cerca di futuro.
    Futuro che il più delle volte non trovano se non sbandando, cedendo alla tentazione della strada, seguendo un destino comune tracciato da un sistema (in)civile che di fatto ogni giorno sembra dimenticarsi della loro esistenza, salvo ricordarsene in fase punitiva. Gaetano Di Vaio, un passato criminale ma anche un riscatto che porta il nome di importanti progetti culturali da produttore come Là-bas di Guido Lombardi, Leone del Futuro alla Mostra del Cinema di Venezia, e la sua opera seconda Take Five, sceglie di raccontare proprio questi ragazzi in Largo Baracche, votato dal pubblico come Migliore Doc italiano all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma.

    Utilizzando il mezzo espressivo più potente, l’unico in grado di raccontare senza filtri: il documentario. Non è la prima volta, Di Vaio ha già girato e prodotto Il loro Natale, sulle famiglie dei detenuti di Poggioreale e Interdizione Perpetua. Con Largo Baracche dimostra ancora una volta che letteratura e cinema nulla possono contro la forza del reale. E così i ragazzi di vita, per dirla con Pasolini, dei Quartieri spagnoli, alias Carmine Monaco e la sua “batteria” di amici, si svelano direttamente allo spettatore nella loro quotidianità.
    Si presentano alla telecamera, raccontano allo spettatore i loro disagi e quelli dei loro parenti, quasi tutti con esperienze carcerarie. Colpisce la voglia di riscatto del figlio di un boss che sceglie la legalità, e ricorda le conversazioni con il padre dietro a un vetro, con due fori per parlare, un microfono, l’impossibilità di abbracciarlo, di mangiare insieme almeno a Natale. Oppure l’ansia del parcheggiatore abusivo padre di famiglia che, anche quando viene multato, grida la voglia di avere “almeno un’alternativa” per far mangiare i suoi figli. E ancora, il senso di abbandono e fatalismo che vive chi abita in quei quartieri: “Noi siamo già condannati perché viviamo qui, siamo già bruciati”.

    Tra un’intervista e una discussione corale, un breve intermezzo poetico sull’innocenza e l’infanzia che corre lungo i vicoli di una Napoli ritratta con una fotografia suggestiva, a significare che c’è ancora tanta umanità da salvare. Un documentario che scuote, che sceglie una narrazione asciutta e senza particolari vezzi formali e lascia infine impressa l’esplosione di rabbia di uno dei suoi ‘personaggi’. E’ una ragazza dei quartieri spagnoli, che insorge contro il suo gruppo di amici e contro la retorica del vittimismo facile. Non è vero che se vieni dai Quartieri Spagnoli hai per forza il destino segnato, lei con un padre tossicodipendente e una madre senza lavoro ne sa qualcosa. E’ arrivata all’Università, e continua a fare sacrifici per andare avanti. Obbedendo solo a una regola, chiara e potente: “Chi vuole studiare, studia. Chi si vuole salvare, si salva”.
    Perché un’alternativa alla strada c’è, e si chiama cultura.

    Claudia Catalli

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    Ficarra e Picone: “Andiamo a quel paese ma senza politici”

    Anteprima romana che chiude il Festival del Film di Roma 2014 per Andiamo a quel paese, nuovo film della premiata ditta Ficarra e Picone, alla regia e protagonisti come di consueto di una commedia al tempo della crisi. Il palcoscenico è nuovamente la Sicilia, da Palermo al piccolo Monteforte, nell’entroterra, un’isola di salvezza quando il lavoro scarseggia e lo sfratto è esecutivo. Ne seguono gag proprie della migliore arte d’arrangiarsi.

    Valentino, Salvo, cosa volevate raccontare?
    Parliamo di ciò che accade oggi a tante persone, ad amici, parenti. ovvero che al di la’ degli 80 euro, oggi te la puoi cavare solo se hai qualche pensionato che ti aiuta.

    In che senso? Come spiegate la frase che Salvo pronuncia, un matrimonio finisce ma la pensione è per sempre?
    Beh non vorremmo svelare proprio tutto, diciamo che i nostri personaggi fuggono dalla città dove non trovano uno sbocco lavorativo – e Valentino nemmeno sentimentale – per rifugiarsi nel paesello natio, dove mettono su una specie di pendio ne per anziani, poi addirittura uno strano matrimonio…

    Bene non sveliamo altro, affrontate però anche la crisi dal punto di vista di due siciliani, con delle battute folgoranti anche sulla politica…
    Proprio come nella realtà anche nel nostro film i politici non godono di ottima salute… diciamo, ma anche qui non possiamo svelare troppo. Diciamo che parliamo del nostro Paese che cerca di combattere la crisi, ma lo facciamo tentando di strappare una risata, vorremmo ricordare che si tratta di una commedia.

    A proposito di Sicilia siete tornati a girare in Casa…
    Cercavamo una piazza particolare, e quando siamo arrivati a Rosolini in provincia di Siracusa abbiamo capito che era la location perfetta per la nostra storia. Gli abitanti sono entrati a far parte del film, ci hanno accolto a braccia aperte e le comparse le abbiamo prese da lì, proprio per il loro entusiasmo.

    Ci sono molte ‘citazioni’, dalle musiche finali, una indimenticabile canzone di Alberto Sordi
    Come non citare i Grandi della commedia italiana? Io avevo sempre voluto esclamare ‘King, Soldatino e Dartagnan’ ad esempio e così abbiamo costruito una gag apposta per questo sogno. Ma ci sono anche citazioni da Totò e Massimo Troisi.

    Registi e attori, ma come fate a controllare tutto?
    Ci aiuta molto il fatto di circondarci di grandissimi professionisti. Il cast infatti è completato da Tiziana Lodato, Lilly Tirinnanzi, Fatima Trotta, Nino Frassica, Francesco Paolantoni e Mariano Rigillo. Con questi colleghi lavorare è un piacere.

    di Rocco Giurato

     

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    Last summer: Il sapore dell’addio

    Premiato all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma, arriva in sala dal 30 ottobre l’esordio commosso e appassionato di  Leonardo Guerra Seràgnoli.

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    Il pudore dell’opera prima, il coraggio della sperimentazione, il piacere del racconto che arriva da  suggestioni lontane ed una libertà stilistica ed espressiva che non si piega a compromessi. Viene da qui l’incanto di Last summer, esordio alla regia di Leonardo Guerra Seràgnoli, italiano che vive e lavora a Londra; il film, presentato al Festival Internazionale del Film di Roma  e in sala dal 30 ottobre, mette insieme maestranze internazionali, ma lo sforzo produttivo è tutto italiano (Luigi Musini e Elda Ferri, in collaborazione con Milena Canonero).
    Un melting pot di talenti che unisce le performance dell’attrice giapponese Rinko Kikuchi (nomination agli Oscar per Babel) e dell’olandese Yorick Van Wageningen (Uomini che odiano le donne), alla penna del fumettista italiano IgorT e della scrittrice nipponica Banana Yoshimoto; il tutto orchestrato dalla montatrice di Michael Haneke, Monika Willi.

    Girato su una barca in mezzo al mare, quello della Puglia di fronte a Otranto, Last summer è un’incursione negli unici quattro giorni che una giovane donna giapponese, Naomi, ha per dire addio al figlio di sei anni, Ken, di cui ha perso la custodia; sorvegliata a vista dall’equipaggio dello yacht dell’ex-marito, la sua unica missione sarà riconquistare la fiducia del piccolo Ken prima di doversene separare per molti anni.
    Una storia universale di amore madre-figlio immortalata nel suo unico vero momento di verità: quello di un lungo addio che ha il sapore dell’espiazione, della catarsi, della rinascita.
    La vicenda narrativa conduce lo spettatore a nutrirsi unicamente della potenza emotiva di questo legame indagato nel suo evolversi in mezzo al mare aperto, in un microcosmo che racconta un istante ben preciso nella vita di persone di cui non conosceremo fino in fondo né passato, né futuro.
    Un cinema di sensazioni e atmosfere che guarda alla migliore tradizione del Sol Levante, forte nella scrittura, geometrico nella messa in scena, denso nei diversi livelli di significato.
    E anche le chiavi di lettura si fanno molteplici: Last summer non è solo il dramma di una madre, ma anche quello di una donna sradicata dal proprio paese. Così l’intimo e personalissimo vissuto dei protagonisti diventa occasione per una riflessione più ampiamente sociale ed esistenziale, che trova espressione in alcuni piccoli rituali di Naomi: che siano le note di una canzone proveniente da un cellulare o una maschera del teatro No cucita mettendo insieme degli scampoli, assumono tutti il valore di un lascito.

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