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    Renzo Martinelli alle radici dell’11 settembre

    Il regista di Vajont e Piazza delle Cinque lune ci racconta la genesi di ’11 settembre 1683′, in cui dirige Murray Abraham, Enrico Lo Verso e Federica Martinelli.

    La data dell’undici settembre è nota in tutto il mondo per l’attacco terroristico alle Torri Gemelle. C’è stato però, nel corso della storia, un altro 11 settembre che ha segnato il destino dell’umanità quanto l’attentato alle torri gemelle. Si tratta dell’11 settembre del 1683, il giorno in cui fu spezzato l’assedio dell’esercito ottomano alle porte di Vienna. Un assedio che durava da due mesi e che sembrava sul punto di terminare con il successo dei turchi. Questa storia ha due protagonisti principali, il Gran Visir Kara Mustafà e Marco da Aviano un frate cappuccino consigliere spirituale dell’imperatore Leopoldo I. Il frate, dopo aver incitato le truppe viennesi all’ultima disperata difesa, si arrampicò su una collina dalla quale osservò il campo di battaglia per tutta la giornata con il suo crocifisso sollevato al cielo.Non è un film contro una visione religiosa rispetto ad un’altra, piuttosto un film contro tutte le guerre, soprattutto quelle di religione. Renzo Martinelli ce lo racconta così:

    Martinelli, un film sull’inutilità della guerra, soprattutto quella di religione…
    Assolutamente si. Una delle scene chiave è quella dell’incontro notturno tra Karà Mustafa e Marco D’Aviano. Entrambi sono convinti di aver ragione, di rappresentare la ragione del proprio Dio. La soluzione è alla fine del film con un campo di battaglia con decine di migliaia di morti e Marco D’Aviano a testimoniare al cielo tutto il suo dolore… Occorre oggi passare dallo scontro del 1863 al confronto, nel rispetto reciproco delle opinioni, ribadendo con forza la propria identità.

    Un film complesso il suo, avrà dovuto affrontare delle difficoltà produttive elevate per realizzarlo…
    Il film ha avuto un costo industriale di quasi dieci milioni di euro. Inizialmente l’idea era quella di coinvolgere nella coproduzione le quattro nazioni protagoniste delle vicende del film, quindi Italia, Polonia, Austria e Turchia: anche se ci siamo arrivati molto vicino, alla fine gli ultimi due paesi si sono defilati, quindi è diventata una coproduzione italo-polacca. Un film del genere è ovviamente complesso sia dal punto di vista finanziario per quanto riguarda la raccolta dei fondi per realizzarlo, sia dal punto di vista post-produttivo: nel film ci sono 1400 inquadrature digitali, non c’è una sola inquadratura che non sia stata trattata. Quindi una fase di montaggio lunga e complessa.
    Sono stati proprio i tempi molto lunghi della post produzione che ci hanno orientati, di comune accordo con Rai Cinema, a passare successivamente la distribuzione a Microcinema, che ha lavorato a tempo pieno e con grande passione su questo progetto.

    Cosa l’ha spinta a voler raccontare questa storia?
    Come accennavo è un film contro le guarre di religione, ma nasce da un’inquietudine collettiva che ci ha lasciato l’attacco alle Torri Gemelle. Ero al montaggio mi ricordo (tutti ricordano esattamente cosa facevano in quel momento dell’11 settembre 2001), stavo completando Vajont. Un amico mi chiamò e mi disse, è venuta giù uina torre a New York. Tornai al montaggio e mzz’ora dopo erano giù entrambe. Da allora la nostra società non è stata più la stessa.
    L’idea è nata proprio dodici anni fa: eravamo in Friuli per l’anteprima del film Vajont. Avevamo organizzato una cosa insolita, all’aperto con una spettacolare platea proprio sulla pancia della diga. Il giorno precedente pioveva a dirotto, un vero nubifragio, avremmo dovuto annullare tutto se non avesse smesso. Qualcuno della troupe locale mi disse: “Non si preoccupi, dottor Martinelli, abbiamo pregato Marco d’Aviano, domani spiove…”. E fu così. Non avevo idea di chi fosse Marco d’Aviano e un mio amico accese in me la curiosità, che mi porta in sala oggi…

    Difficile girare oggi in Italia uno dei suoi film epici, come ha fatto?
    Non lo so ancora oggi. Ho girato mezza Europa per cercare finanziatori, con il cappello in mano, ma è una parte del mio lavoro di regista produttore, macchinista montatore. Comunque difficoltà finanziare anzitutto. Un film del genere va interamente disegnato, quindi uno storyboard di cica 1000 pagine. Va progettato inquadratura per inquadratura, tutti i contributi da girare nei mesi successivi sono da tenere in considerazione al millesimo. Ad esempio per completare ogni singola scena, anche cose banali come le vedute di Vienna dalle finestre della Palazzo Imperiale, vanno fatte in post produzione, ma va calcolata la luce il taglio d’ingresso, cose complicatissime.

    Lei è uno dei nostri registi maggiormente tecnici, documentati al limite del maniacale. Con questa storia quanto è riuscito ad essere fedele e quanto c’è di romanzato?
    Siamo partiti da un romanzo, Il Taumaturgo e l’Imperatore, di Carlo Sgorlon, scrittore friulano. Da lì abbiamo allargato, insieme al mio co-sceneggiatore Valerio Massimo Manfredi, a tutta una serie di ricerche di documenti storici, dai diari di Padre Cosma, il frate che accompagnava Marco d’Aviano per i suoi pellegrinaggi a piedi attraverso l’Europa, fino a tutti gli altri saggi e libri scritti sull’argomento, sia da parte occidentale che musulmana. Alla fine tutto questo materiale deve necessariamente diventare un film e trasformato drammaturgicamente in una storia. Molte delle licenze che mi sono preso, come l’incontro notturno tra i due protagonisti, servono comunque a restituire il senso profonde del film, ovvero l’insensatezza della guerra di religione

    Instancabile Martinelli, sappiamo ad esempio che non ha ancora lanciato il suo ultimo lavoro in sala e già sta lavorando sul nuovo…
    Si, da circa tre anni stiamo lavorando a un film su Ustica. Un film che fornisce una nuova ipotesi totalmente documentata su quello che è veramente successo secondo noi. Sarebbe la quarta. Oltre al cedimento strutturale di un aereo adibito al trasporto passeggeri dopo esser stato un aereo che trasportava pesce; dopo la tesi della bomba nella toilette di coda e del missile aria aria che vrebbe dovuto colpire un Mig Libico e invece colpì il DC-9 Itavia.
    Riteniamo di avere individuato la vera dinamica di come sono andate le cose attraverso lo studio di documenti che evidenziano prove inconfutabili. Ustica è un insieme di verità inconfessabili che sono sempre state davanti ai nostri occhi, e che hanno portato a disseminare negli anni tutte le false verità che conosciamo.

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    Lo Cascio regista, esordio ideale

    Luigi Lo Cascio, dopo tante soddisfazioni da attore, esordisce alla regia con La città ideale, un film ricco di scelte non banali che dal Festival di Venezia arriva nelle nostre sale

    Luigi, hai esordito a Venezia, eri emozionato?
    Mi considero di casa al Festival di Venezia, dovrei essere abbastanza abituato, ci sono stato nove volte dal 2000, con i Cento passi. Eppure un esordio a Venezia una certa tensione te la mette sempre. Poi questo e’ un film che sento molto personale.

    Da cosa nasce questo tuo film?
    Pur non avendo mai fatto il regista ho scritto molte cose per il teatro, e questo mi ha aiutato a capire che per fare il salto dall’altra parte della macchina da presa era scrivere la mia storia. Ed e’ così posso dire,che prende forma il mio film. Pezzo per pezzo, sorprendendomi. Non entra nei generi consueti perché è nato da una sorta di generazione spontanea di idee, condite con le mie passioni, quindi Kafka, passioni di lettore, di spettatore e di cittadino.

    La città ideale cambia più volte ritmo, in occasione di due dialoghi in particolare, quello con tua madre e con Carlo Maria Burruano, ci spieghi come hai scelto di inserirli in quei punti precisi?
    Non secondo strategie di come si scrive una sceneggiatura perfetta. Semplicemente assecondando la volontà di far succedere alla parola pacata, al senso verboso di certe idee del mio protagonista, un ritmo più sincopato, il lato delle emozioni, dei sentimenti. Una grana della voce tutta particolare. In qualche modo in questo film c’è tutta la ma famiglia, mia madre infatti è la sorella di Burruano, poi ci sono molti parenti sparsi qua e là.

    Ma perché hai scelto di raccontare una persona ‘braccata’ da tutto e tutti?
    Volevo rendere qualcosa di tragico ed eroico. Un gesto forte che solo una recitazione marcata ed un carattere forte potevano rendere. Volevo che non fosse un idealista ma un fanatico. Quando il caso irrompe nella sua vita e lo obbliga a prendere una posizione ecco che c’è il cambio di registro. Credo che in un personaggio molto sopra le righe sia addirittura più facile ricercare ognuno la propria singola mania, il proprio modo di pensare su un determinato argomento e quindi identificarsi meglio con lui.

    Hai deciso fin da subito di dirigerti nel tuo esordio da regista?
    Questa è una cosa molto particolare. Nel senso che non capisco come facevano prima i registi attori a dirigersi senza avere la possibilità di rivedersi immediatamente sul set. Davano per buono un ciak che poi avrebbero potuto rivedere solo in seguito; gli riconosco una capacità immensa. Oggi è tutto più semplice con la tecnica digitale. A mia madre o a Burruano ho pensato subito, ma non pensavo a me. Il film però risultava essere più personale con me dentro ed ho seguito il consiglio di Angelo Barbagallo, il produttore.

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    Alessandro Preziosi, sotto osservazione

    Alessandro Preziosi, l’attore più amato dalle donne italiane indossa i panni di un chirurgo plastico dai mille volti, spregiudicato, ingenuo, spietato… e finisce sotto la lente deformante di Corsicato. Tra finzione e realtà l’attore si racconta.

    Alessandro, a cosa ti sei ispirato per questo ruolo surreale?
    Mi sono ispirato al mestiere dell’attore, che non è sempre scontato riuscire a centrere con il regista e con gli sceneggiatori. Il mio personaggio andava incanalato in un percorso narrativo, questa cosa mi ha intrigato. Mi sono ritrovato a mettere a frutto cose apprese in un meraviglioso mestiere che faccio nella vita che è quello dello spettatore del grande cinema, dagli occhi di Daniel Day Lewis al roteare delle mani di Verdone.

    Hai fatto i conti con la figura di sex symbol nella vita?
    Sinceramente no, è una cosa che non mi ha mai interessato, l’ho combattuta con il teatro. Io non credo che la nostra società non possa elaborare i concetti di divo o sexy, non ci appartiene. Credo che sia un problema editoriale, la bellezza è un fenomeno di guadagni, di vendita di copie di giornali cosiddetti ‘femminili’, io non mi sono mai considerato bello. Sono un attore, bravo o meno non sta a me dirlo, ma quello è il mio mestiere, il resto è marketing. Ognuno di noi poi è libero di curare il proprio corpo come meglio crede. Ci sono avvocati o chirurghi che sono statue greche e non fanno gli attori, lo sono perche amano lo sport e lo sport fa bene al corpo.

    Come hai incontrato questa storia di Pappi?
    E’ stato un pomeriggio infinito quello in cui abbiamo parlato del film. Pappi è un artista che aveva il bisogno di esprimersi artisticamente e non socialmente. Per le esperienze che ho avuto io era qualcosa di profondamente nuovo. io non pongo mai limiti all’esplorazione di nuovi territori, quindi la sfida di capire veramente cosa significa questo mestiere mi ha preso. Non è stato facile costruire questo personaggio costruito con un perfazionismo maniacale da Pappi, cosa che mi ha messo a dura prova.

    C’è stato un momento in cui avresti fatto qualsiasi cosa pur di ‘arrivare’…
    C’è stato un momento che ricordo con grande precisione nel quale guiardando altri miei colleghi raggiungere dei risultati esaltanti ho – come si suol dire – rosicato. ho pensato allora che avrei potuto far di tutto, ma poi per fortuna anche che se così doveva essere la mia vita forse avrei dovuto tornare a fare l’avvocato. non si può vivere l’ambizione così, io non voglio viverla così. voglio essere soddisfatto di quello che faccio questo si, ma non un centimetro di più.

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  • La città ideale: esordio coraggioso per Lo Cascio

    VOTO: 3.5

    La città ideale di Luigi Lo Cascio si compone di mille stimoli, di infiniti spunti, suggeriti allo spettatore dal regista, che firma la sceneggiatura di cui è anche protagonista pressoché assoluto. Proprio nella coralità delle interpretazioni di un esordio fortemente voluto e non perfetto tuttavia ci sono gli elementi distintivi di una buona prova, che nasce evidentemente da una storia molto calata in gusti, sensibilità e passioni personali, affinate negli anni alla corte di numerosi set cinematografici e teatrali, oltre che in anni di sperimentazione personale e studio. Si intravedono atmosfere kafkiane in una Siena ideale ma non troppo, forse perchè calata in un’Italia provinciale, che teme il cambiamento, il nuovo. Il punto di vista sociale e politico del regista sono ben in vista – ed è un gran pregio – in una pellicola che ha il difetto di dover o voler dire tutto nel breve scorrere dei 100 minuti o giù di li della proiezione. Ecco che allora alcuni caratteri sembrano estremamente eterei e perdono la forza espressiva e le dinamiche sapientemente ordite fin dalle prime immagini, davvero intriganti.
    Lo Cascio dissemina il suo coraggioso esordio di volti noti, al pubblico, ma anche al regista, protagonista di duetti eccellenti con la madre, Aida Burruano e con lo zio, uno straordinario Luigi Maria Burruano.

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  • Un giorno devi andare: affascinante il viaggio di Diritti

    In Un giorno devi andare il regista bolognese racconta a modo suo la ricerca di se’ di una giovane, interpretata da un’ottima Jasmine Trinca, che in Amazzonia trova molto di più di quello che avrebbe mai sperato di incontrare.
    VOTO: 3,5

    Un viaggio alla ricerca di se’, del senso più profondo della vita, questo è quello che intraprende, senza preconcetti e senza sovrastrutture culturali, un regista come Giorgio Diritti, abituato a sorprendere con il suo cinema essenziale.
    Questa volta Diritti affida il suo racconto – un viaggio in Amazzonia, tra le acque ora placide ora furiose del Rio delle Amazzoni – agli occhi curiosi di Jasmine Trinca, perfetta nel rendere lo spaesamento occidentale al cospetto della meravigliosa brutalità della Natura.
    La fuga inevitabile dal dolore per la perdita di un figlio non è che uno solo dei motivi che allontanano Augusta dalla sua comunità montana in un’Italia, in un’Europa, in una cultura occidentale ormai divenuta inconsapevolmente aliena.
    Quello che succede al cospetto di modi, usi e costumi lontani, di fronte a bisogni primari che lasciano il posto ad inattesi gesti di infinita leggerezza, è una piccola meraviglia che non riempie solo l’anima di Augusta, ma anche gli occhi ed i cuori dello spettatore.
    Dagli Indios delle palafitte di una favela di Manaus abbiamo tutti da imparare, nel bene e nel male. Sembra facile da intuire, non era facile da spiegare in maniera che fosse plausibile e mai scontata, come la carità pelosa, come l’integralismo cattolico che risente dell’atavico stimolo del conquistadores…
    Augusta fugge da questo nella foresta esattamente come era fuggita da quel peso che la opprimeva in patria. Si tratta di una scelta dolorosa certo, ma come contraltare inatteso ha un sorriso, quello di un bimbo su una spiaggia deserta, allegoria di chi è capace di parlare il linguaggio delle emozioni ed insegnare ad un adulto l’essenza della felicità.

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  • Il volto di un’altra: Occasione sprecata

    VOTO: 2

    Tanto presi dalla necessità di apparire che nemmeno un  asteroide in procinto di piombare sulla Terra può distogliere lo sguardo delle telecamere dal popolo e del popolo dalle telecamere. Questo in sintesi il Corsicato pensiero che è visibile attraverso lo schermo deformante de Il volto di un’altra. Una clinica specializzata in chirurgia plastica, atmosfera bucolica nella cornice che la contorna, il gioco dei contrasti che ci mostra i protagonisti, Laura Chiatti ed Alessandro Preziosi, muoversi tra le dinamiche del talent – lei – e quelle di rino e masto plastiche per miliardari  – lui-.
    Le loro strade di coniugi indifferenti e patinati si icontreranno grazie ed un incidente d’auto causato, udite udite da un wc che piomba sull’auto di lei da un cavalcavia deturpandole il viso. Ma sarà vero? la dicotomia tra essere e apparire e fin troppo chiara fin dalle prime battute su un film che il regista firma in ogni minimodettaglio con quello che è il suo marchio di fabbrica, l’umorismo acido e irriverente.Corsicato ci racconta la società dei talent, dei giornali patinati, degli interessi miliardari che si nascondono nei messaggi, pubblicitari e non, che spingono alla ricerca della perfezione.
    Quello che stavolta non funziona nel lavoro del talentuoso regista di Chimera, I buchi neri o Il seme della discordia, è quel meccanismo capace di coinvolgere, avviluppare con immagini smaglianti che raccontano miserie umane e sociali. questa volta il grottesco non colpisce lo stomaco, annoia, rende la narrazione didascalica fino all’inverosimile. Il risultato è stilisticamente perfetto, dai primi piani su occhi e labbra della splendida Chiatti alle sopracciglia di Preziosi, dai bendaggi creativi della diva e delle degenti mostruosamente rifatte, agli spazi chirurgici asettici e popolati da infermiere mostrate comele famose tre scimmiette, ma questo basta a giustificare la catarsi finale, con tanto di asteroide salvifico? Monty Python docet. Peccato.

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    Peter Greenaway e la sua crociata anti-religiosa

    Al Festival del Film di Roma il regista gallese Peter Greenaway presenta Goltzius and the Pelican Company, sua personale crociata anti-religiosa in un film ad alto tasso erotico che si pone di demolire alcuni miti dei credenti.

    Non ci si aspettava un film di questo tipo, da dove trae la sua immaginazione?
    Avete già visto alcuni dei miei film? Allora la nozione del nudo non sarà una sorpresa per voi. Allo stesso modo l’idea di dare priorità all’aspetto visivo allo stesso tempo di combinare l’arte pittorica e il cinema non vi saranno nuove se avete già visto il mio cinema.
    Pensavamo sopratutto ai vari temi del Vecchio Testamento che ha affrontato, da Adamo ed Eva ad Salomé e Giovanni Battista.
    Dimenticavo che stavo parlando con degli italiani. Tutte le vostre nonne immagino erano devote cattoliche, ma credo che oramai sarete tutti dei ragionevoli atei. Comunque la si rigiri la nostra società è stata influenzata da nozioni giudaico-cristiane. Personalmente sono inorridito dalla negatività della religione ed in particolare di quella cristiana. Il cristianesimo dovrebbe essere una forza che promuove la creatività, la fecondità, l’andare avanti ed il progresso, ed invece è molto negativa e l’opportunità che il cristianesimo ed il sesso vadano a letto insieme è praticamente inesistente. Ed è detto all’inizio della genesi che Adamo ed Eva non debbano ‘scopare’. Ma se non avessero ‘scopato’ io non sarei qui a parlare con voi.
    Ma gli amanti possono fare sesso dopo il matrimonio…
    Anche questa soluzione è vista di sbieco dalla religione cattolica. Dovresti farlo attraverso un lenzuolo e con le luci spente. Ma la realtà è che 95% degli atti sessuali sono a scopo ricreativo, e non funzionali a procreare, quindi sembra esserci un’enorme malagestione da parte della chiesa di quello che è un argomento enorme.
    Sicuramente è un aspetto importante delle controversie della chiesa da diversi anni e che la allontana dalla modernità
    Voi cattolici la modernità di fatto l’avete persa nel 1517 quando siete stati rimpiazzati dai protestanti nei paesi chiave in Europa. Vi siete persi l’illuminismo, vi siete persi la rivoluzione industriale. Lo sviluppo vi ha lasciato indietro perchè il cattoliscesimo è sostanzialmente fondato sull’ignoranza, mentre il protestantesimo, pur con tutte le sue pecche, cerca di abbracciare il presente e guardare al futuro.
    La religione sembra essere per lei un argomento moderno, è così?
    E’ molto facile criticare la religione in particolare il cristianesimo, fin troppo facile. Alcuni dei miei amici protestanti mi chiedono: ‘perchè continui a perdere il tuo tempo a criticare la religione?’, sostanzialmente perché nessuno oggi di alcun calibro intellettuale crede ancora in quella stupida mitologia. La mitologia cristiana è di enorme diletto ma sostanzialmente è priva di significato. Il Vaticano stesso ha smesso di puntare sull’Europa  e ora cerca i suoi nuovi bacini in Africa e Sudamerica tra le persone superstiziose. E spero inoltre che nessuno di voi sia mussulmano perché non vorrei essere l’oggetto di una fatwa, ma sicuramente anche l’Islam finirà per disintegrarsi entro le prossime due o tre generazioni. Con I giovani che hanno accesso a sempre più informazioni, presto tutta la mitologia di matrice religiosa sarà spazzata via.
    Quindi il suo messaggio è: chiudiamo con il placebo della religione e guardiamo avanti ad un mondo libero da restrizioni?
    Si, perché per la prima volta siamo rimasti tutti quanti soli. Dio é morto, il diavolo è morto, non possiamo più incolpare Sigmund Freud perché oramai è screditato. Non c’è più nessuno a cui attribuire delle colpe. Per la prima volta nella storia del mondo siamo soli. Dobbiamo addossarci le nostre responsabilità e questo nuovo senso di assoluta libertà terrorizza molte persone. Ma allo stesso tempo dovrebbe motivarci, perché non c’è più nessuno da incolpare, e siamo finalmente i padroni del nostro destino. Finalmente abbiamo la libertà alla quale siamo stati disabituati politcamente, religiosamente e psicologiacamente per secoli, usiamola!
    Quali sono gli elementi che secondo lei rappresentano meglio I tempi moderni?
    Per esempio, il film apre con una scelta, Goltzius dice agli spettatori che possono o essere rappresentati dal cristianesimo, e quindi il vecchio testamento, oppure dalla corrente dell’umanesimo. Stiamo nel sedicesimo/diciassettesimo secolo e, se vi ricordate, in questo paese c’era un grande scontro tra le due correnti: Come si faceva quindi a mettere il cristianesimo in associazione con l’umanesimo? Possiamo considerare Virgilio un ‘pre-cristiano’? Possiamo includero Omero in paradiso? Sono dei grandi problemi intellettuali. C’è stato nel Rinascimento italiano una grossa attenzione verso la grande questione dell’umanesimo. Ci sono stati una serie di luminari che hanno lottato per fare combaciare gli opposti di umanesimo e cristianesimo, da Erasmo da Rotterdam a Giordano Bruno. Ma la questione rimane irrisolta.
    E quindi io non ti rispetterò per la tua religione, ma mi sforzerò maledettamente di proteggerti da ogni forma di sfortuna in nome dell’umanesimo. Sostanzialmente perché considero che la vita sia sacra, ma non da un punto di vista religioso, ma piuttosto da una prospettiva Darwiniana, da un punto di vista evolutivo.
    Quale è la sua prospettiva, non necessariamente religiosa, diciamo il suo modo di interpretare il mondo?
    Mettiamola così, vengo da una lunga tradizione di persone che possiamo descrivere come rurali. Come sapete la tradizione brittannica è molto associata alla natura. Siamo stati I primi a scalare le Alpi. Voi italiani non vi siete mai preoccupati di scalare le Alpi, l’hanno scalata per primi gli stupidi inglesi, che sono stati anche I primi a scrivere poesi liriche, e la stessa idea di romanticismo l’abbiamo iniziata noi, e neppure I tedeschi. Quindi siamo stati I primi ad avere una relazione profonda con la natura, ed intendo la Natura con la N maiuscola. Darwin, che credo fermamente essere l’uomo più grande di tutti I tempi, creò un sistema di pensiero che era fortemente legato all’ordine naturale, e che era enormemente confortante. Sebbene I miei genitori ed I miei avi non erano assolutamente fattori – mio padre era un ornitologo, mio nonno uno giardiniere specializzato in rose, e mio bisnonno un taglialegna – sapevano tantissimo del loro paese dal punto di visto naturale. E non lo facevano affidandosi a manuali, lo facevano attraverso le loro  osservazioni personali. Quando avevo circa otto anni mio padre mi portava in Olanda con  un paio di binocoli attaccati agli occhi, e probabilmente saprete che l’Olanda è un paese bagnato, umido e fangoso. Quindi ho passato la mia gioventù girovagando ed osservando gli uccelli in Olanda. E quelle nozioni mi sono rimaste, quindi oggi in base al suono solamente posso dirvi la differenza tra un rigogolo e un cardellino. Semplicemente in base al suono. E pensavo all’epoca che qualsiasi bambino potesse distinguere I cinguettii dei due uccelli, e mi sono accorto dopo che molto persone non possono distinguere, non dico I suoni ma di fatto, tra un piccione ed un passero. Ma è anche vero che questi ragazzi mi sapevano dire la differenza tra una Alfa Romeo ed una Lamborghini, ed io non ero in grado. Quindi molto è legato all’influenza parentale. Io ho due figlie da un primo matrimonio, e le portavamo in giro per gallerie d’arte a Londra e per il mondo, e loro lo odiavano, tutto ciò che volevano fare era essere a con gli amici, o a casa a guardare la tv. Adesso sono nella quarantina ed una è una scultrice e l’altra un’argentiere, quindi è curiosio che nonostante in giovane età si rifiuti queste influenze parentali, diventano molto importanti nel corso degli anni.
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  • Diaz – Don’t Clean up This Blood: La forza delle idee!

    In Diaz – Don’t Clean up This Blood, Daniele Vicari affronta con rigore i fatti del G8 di Genova. Il film, già premiato a Berlino, non fornisce risposte ma lascia lo spettatore solo con le proprie domande.

    Una bottiglia vuota vola al ralenti, infrangendosi al suolo, ancora e ancora e ancora….
    Una delle immagini iniziali di “Diaz – Don’t clean up this blood”, in cui quello che sconvolge è il senso di impunità che resta nello spettatore allo scorrere dei titoli di coda. Quello che ancor più sconvolge è che gli artefici di una mattanza in pieno stile ‘macelleria messicana’ siano ancora tutti lì, a ‘proteggere e servire’, direbbero poco più su, in America.
    E invece siamo in Italia e l’attentato alla democrazia perpetrato da 400 esponenti delle forze dell’ordine a Genova, tra la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto, durante il G8 del luglio 2001, è raccontato da un giovane e rigoroso regista italiano: Daniele Vicari.
    Solo uno spirito libero poteva affrontare senza pregiudizio una storia italiana solo a livello territoriale, mentre la sua valenza travalica le frontiere, arrivando a scuotere le coscienze dal torpore ad oltre 10 anni da quell’orrore insensato, ovunque il film verra’ proiettato.
    Ma andiamo con ordine. Le vicende che seguirono il summit dei Grandi della Terra, la ‘zona rossa’, i ‘black bloc’, la tragica fine di un manifestante, Carlo Giuliani, sono vicende note ai più. Meno noto, o meglio, mai reso noto con questa lucidità e chiarezza, è quello che accadde alla ‘Scuola elementare primaria Armando Diaz’ il 21 luglio 2001, tra le 22.45 e la mezzanotte.
    Vicari racconta dei 364 poliziotti entrati nella notte a sgomberare un “manufatto occupato da pericolosi sovversivi” – almeno secondo i verbali che sono agli atti del processo – dei 150 carabinieri chiamati a presidiare l’area, tutto per 93 persone, non tutte con il certificato di santità in tasca certamente, ma molte delle quali andate a Genova solo a manifestare pacificamente il proprio dissenso.
    Vicari mostra un dramma in cinque atti mentre la bottiglietta vuota vola e atterra varie volte, infrangendosi sul selciato da vari punti di osservazione, simbolo di sogni infranti, orrore, disillusione, impotenza, indignazione. Un montaggio dalla precisione chirurgica e dalla grammatica impeccabile tiene insieme i fili di facce e stati d’animo dei protagonisti, 126 attori e 8000 comparse che rendono credibile l’atmosfera di carruggi deserti e piazze assolate almeno quanto affollate, di palestre dormitorio e media center. Nulla è lasciato al caso, un lavoro certosino, due lunghi anni di preparazione alle riprese.
    C’era una montagna di documentazione processuale alle spalle, che tuttavia necessitava di una chiave di lettura, per non restare pulviscolo e vergogna. La chiave di lettura di un film come “Diaz” è la sua volontà di parlare al Mondo, non solo all’Italia. Perché
    nulla di quanto raccontato sulla Diaz – e ancora di più su Bolzaneto – è stato mai esaustivo, definitivo. Quello che mancava oltre le ferite, i denti e gli arti spaccati, era la consapevolezza filmata che gli abusi da soli non bastano a capire e ad indignarsi.
    Quello che deve atterrire e in cui il film di Vicari riesce mirabilmente nel suo triste compito, è raccontare la sistematicità della violenza cieca.
    Quindici ragazze in stato d’arresto denudate e fatte girare su se stesse al ludibrio generale, 15 su meno di cento arrestati, di cui meno di 40 erano donne; un numero spaventosamente alto anche per chi non mastica la statistica. E ancora scalpi, capelli tagliati con il coltello, una cosa terribile, e ancora e ancora e ancora…
    Allora il fatto che qualcuno, anche senza averne ricevuto ordine, si sia sentito in diritto di fare quello… non è accettabile. Almeno per Vicari, che non ha risposte per lo spettatore, solo domande: quelle che il regista e il privato cittadino italiano Daniele, che di mestiere fa il regista del reale, si pone e che tutti dovrebbero porsi dopo questo film.
    Non a caso nessuno degli ottimi professionisti che hanno contribuito alla riuscita di questo difficilissimo film è stato citato. Vanno ringraziati tutti insieme però. Molti di essi, abituati a ruoli di primo piano, hanno accettato di prestare la loro forza interpretativa a personaggi poco più che marginali. Anche questa è la forza di una storia che evidentemente nella coscienza di tanti, anche la loro dunque, andava raccontata.
    Forse perché una delle parole chiave del movimento no global, dopo ‘un altro mondo è possibile’ era Tobin tax, dalla proposta di tassazione delle transazioni finanziarie dell’economista americano James Tobin, ispiratore del movimento ATTAC. Curiosamente si tratta della stessa Tobin tax di cui discutono, 11 anni dopo, la Merkel e Sarkozy. E intanto continua ad infrangersi al suolo, ancora e ancora e ancora… una bottiglia.

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