Il ritorno di Mira Nair

Aveva vinto il Leone d’Oro nel 2001, poi un decennio di quelli che restano nella storia. Ora Mira Nair torna con Il fondamentalista riluttante, un film che dopo aver aperto lo scorso Festival di Venezia, sbarca in sala dal 13 giugno.
Un film che è anche un percorso di riconciliazione per lei?
Io sono una figlia dell’India moderna, ma sono stata cresciuta da un padre di Lahor prima della divisione. Quelle sono la mia cultura e il mio linguaggio. Ho visto il Pakistan per la prima volta solo 6 anni fa. Forse per questo volevo raccontare la storia della nazione diversamente, non dal punto di vista della divisione o come un Paese colpito da terrorismo e corruzione. Un altro livello di ispirazione importante è stato quello del libro. Ha aperto una finestra sul Pakistan moderno e sul dialogo tra Est e Ovest. Vedevo ‘Il Fondamentalista Riluttante’ come un possibile ponte per superare la miopia e gli sterotipi, il muro degli ultimi decenni nel dialogo tra Usa e Medioriente. Ovviamente, avendo vissuto più in Occidente e a New York che in India, la mia posizione era privilegiata, come per molti attori che hanno partecipato al progetto. Ma ho realizzato che proprio questa troupe aiutava a dare l’idea dell’alternanza dei due mondi.
I due personaggi però mantengono i propri muri…
L’approccio del film era quello di aprire un dialogo. I due protagonisti possono parlare tra loro anche se c’è tristezza nel loro dialogo. Io credo che i due sarebbero intimamente e spontaneamente connessi se non ci fosse il contesto a dividerli.
Di quel 2001, dopo il Leone d’Oro appena vinto per Moonsoon Wedding, cosa le rimane?
Ricordo che ero contenta, appena arivata a Toronto per il festival. E’ stato uno shock profondo, perché venendo da New York avevo mio marito e mio figlio lì in quel momento, come anche una mia cara amica. La mia preoccupazione era per ciò che poteva succedere alle persone che amo. C’è voluta una settimana prima di riuscire a comunicare con loro o tornare a casa. Quel che vedevo assomigliava alle immagini che avevo visto nella mia parte del mondo, ma stavolta succedeva dietro casa. Mi disturbava sentire improvvisamente la sensazione di diversità e alterità anche con persone con le quali condividevo la vita in città. Questa sensazione ha influenzato molto tutti noi, come persone, e l’autore del libro
Che accoglienza si aspetta negli Usa?
Spero il pubblico segua lo spirito che il film rappresenta. Un film fatto da persone che capiscono davvero cosa sia lo spirito statunitense e amano quel Paese. Una conversazione che supera i pregiudizi che ci contaminano nella stampa e nella politica. Spero che il pubblico trovi la sua connesione nella propria vita; siamo persone che viaggiano tra questi due mondi di continuo e credo che, a differenza di quanto detto da Bush – ‘o con noi, o contro di noi’ -, ci sia un posto intermedio, quello di un mondo che non vuole la guerra ad ogni costo. Una voce che possa porsi come via.
Non crede che manchi proprio l’aspetto religioso del fondamentalismo nel film?
No, anzi una idea importante è che questo è sviluppato in parallelo al fondamentalismo economico di Wall Street. Vediamo come quando Changen torna in Pakistan diventi preda di chi pensa sia tornato per servire una certa ideologia e lo vuole come motore del terrore. Lui rifiuta, perché vede lo stesso fondamentalismo nei due mondi.
Il film adotta una visione laica e viene dall’osservazione di un mondo che esiste in Pakistan e nel continente e non riflette solo sugli aspetti religiosi, come spesso oggi i media riportano. Non ignora il terrore ma non gli appartiene, e appartiene a una tradizione secolare laica.