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    Hostiles: l’umanesimo di Scott Cooper

    Aveva aperto la dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma pe ora arriva, dal 22 marzo, nelle nostre sale Hostiles, il western di Scott Cooper. Tra immense vallate e montagne rocciose, la storia di un viaggio che è un “percorso dell’anima”, come lo ha definito lo stesso regista. Protagonisti sono Christian Bale, Rosamund Pike e Wes Studi.

    Leggi la nostra recensione del film dalla Festa del Cinema di Roma qui.

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    Un sogno chiamato Florida: sotto la maschera di cartapesta

    Abbandonata la videocamere dell’i-Phone, Sean Baker mette ancora in scena gli ultimi della società con Un sogno chiamato Florida. Ad altezza bambino, il racconto di una vita di confine tra povertà e sogno. In sala dal 22 marzo.

    Ad un personaggio di Tangerine (presente nel catalogo italiano di Netflix), Sean Baker fa dire: “Los Angeles è una menzogna splendidamente confezionata“. A due anni da quel film, sembra che The Florida Project, in italiano reso con Un sogno chiamato Florida, prenda spunto proprio da quella frase per raccontare una nuova storia. Sì, perché se sostituiamo “Los Angeles” con “Orlando”, il significato di fondo resta quello. Dalla capitale delle stelle alla capitale del divertimento per famiglie, il percorso di Baker resta coerente, concentrato com’era – e com’è – sugli ultimi della società, quelli presi a calci nel didietro dal sogno americano (Tonya, a breve nei cinema, e The Disaster Artist ne sono altri due splendidi e attuali esempi).

    Moonee ha sei anni e vive con la madre in un motel dai colori pastello alle porte del parco divertimenti di Disney World, che, molto probabilmente, non ha mai visitato. Il caldo estivo della Florida, i grandi paesaggi tropicali, qualche spicciolo recuperato per comprare un gelato (in una gelateria a forma di gelato) e i due piccoli vicini di casa sono la sua Disney World. Quello di Moonee è un mondo di confine e lei deve imparare ad affrontare ogni giorno una realtà in cui i colori pastello sono solo quelli dei muri dei palazzi. Piccola bulla che sputa sulle macchine dei nuovi arrivati al motel dove soggiorna (ora diventato una sorta di “casa popolare”), che spia la signora in topless in piscina, che prende in giro, urla, dice parolacce e contravviene alle regole imposte dal manager Bobby (un fantastico Willem Dafoe, unico attore professionista nel film e meritatamente candidato all’Oscar per questo ruolo).

    Baker prende la sua telecamera, segue Moonee e i suoi amichetti e mette in scena un ritratto (che non ha nessuna intenzione di scadere nello sdolcinato) della white trash, della “spazzatura bianca“, i poveri d’America che non hanno la pelle nera: alle spalle di un parco giochi, simbolo di un Impero costruito sul mito – superato – dell’opportunità per tutti, la disperazione di chi, senza un lavoro, senza una prospettiva, nell’orizzonte ampio che gli si staglia davanti, cerca solo il modo per arrivare alla fine di un’altra lunga giornata.
    Le strade del Magic Castle e di Futureland (così si chiamano i comprensori in cui si svolge questa storia) da riparo per turisti – ce ne sono due, nel film, che appena arrivano, vogliono scappare – diventano non-luoghi della disperazione, un po’ come le strade di Los Angeles riprese in Tangerine. Gli ampi campi lunghi e gli accesi colori dei paesaggi (la scena sull’albero con Moonee e l’amica che mangiano waffle con marmellata è di una bellezza prepotente) sono i mezzi di cui Baker si serve per sfasciare la cartapesta dei sogni e sviscerare i drammi di una realtà che ha pochissimo da offrire. Da non perdere!

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    Foxtrot: destino ballerino

    Dopo Lebanon, il regista israeliano Samuel Maoz torna nei cinema italiani con Foxtrot. Una danza con il destino che ha vinto il Gran Premio della Giuria all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. In sala dal 22 marzo.

    Sinistra, sinistra. Avanti, avanti. Destra, destra. Indietro, indietro. I passi del Foxtrot, ma anche la resa visiva del rapporto che l’essere umano ha con il destino. Almeno secondo Samuel Maoz che, dopo aver vinto il Gran Premio della Giuria all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (nel 2009, sempre al Lido, aveva vinto il Leone d’Oro con il suo primo film, Lebanon), arriva dal 22 marzo nelle sale italiane.

    Gli spazi angusti del primo film (il carroarmato) ora tendono ad allargarsi, pur mantenendo un’atmosfera claustrofobica che sottolinea quanto gli individui al centro delle vicende siano, in qualche modo, intrappolati e impossibilitati ad un movimento veramente ampio. Dalla casa in cui vive Michael (fatta di luci scure e geometrie perfette quasi snervanti) al checkpoint in cui suo figlio è stanziato insieme ad altri commilitoni, gli ambienti ritratti di Maoz sono in balìa di una forza centripeta che non gli permette di uscire da questo circolo vizioso, da questo movimentato ballo con il loro destino. I passi del Foxtrot segnano un eterno ritorno, disegnano un cerchio che collega padre e figlio, allontanati dalla crudeltà della guerra. Ed è proprio in questo movimento circolare che rientra l’intera struttura della pellicola: il regista israeliano mischia stili e registri in una composizione a tre atti che tanto ricorda la più classica delle tragedie greche.

    Se all’inizio ci troviamo davanti alla tragedia, all’evento che stravolge le vite, con un padre e una madre che affrontano la notizia terribile del figlio “caduto in battaglia” (per un soldato non si usa “morto”, tendono a specificare al telefono mentre preparano il necrologio), Maoz passa, dopo un velocissimo cambio di prospettiva, a qualcosa di più surreale e fortemente simbolico. La vita dei quattro soldati, stanziati in un checkpoint ai confini di qualsivoglia realtà, si divide tra il container-dormitorio che ogni sera sprofonda di un centimetro nel fango, il lavoro svolto quasi per assuefazione e un cammello che lentamente gli passa davanti. Scherzo beffardo di un destino che provoca fino ad esplodere quando una innocente lattina di birra cade da una macchina durante un controllo. Infine l’ultimo cambio, quando la speranza fa capolino in un microcosmo devastato dal dolore.

    Maoz ha la pecca di aver costruito troppo questo Foxtrot. Come un esperto coreografo, i suoi “passi di danza” seguono una logica ferrea, spesse volte prevedibile, ma genuinamente sorprendente nei colpi di scena. Il cerchio disegnato da Maoz si delinea nel secondo atto della vicenda, quando, anche grazie all’aiuto del cartoon, vuole trovare il punto di contatto tra padre e figlio: la donnina con i seni censurati sulla rivista per adulti, il senso di colpa per essere stati, ognuno per sé, responsabili del proprio (tragico) destino.

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    Insyriated: guerra, morale e sacrificio

    Vincitore del Premio del Pubblico nella sezione Panorama della scorsa edizione del Festival di Berlino, dopo la presentazione alla scorsa Festa del Cinema di Roma, arriva nelle nostre sale Insyriated, il dramma firmato dal belga Philippe Van Leeuw. Un sofferto viaggio tra le mura di una casa in una città siriana sotto assedio.

    Leggi la nostra recensione dalla Festa del Cinema di Roma qui.

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    The Disaster Artist: elogio del brutto e della tenacia

    Com’è nato il film più brutto della storia del cinema? Ce lo dice James Franco con The Disaster Artist, biopic in sala dal 22 febbraio che racconta la genesi di The Room, pellicola del 2003 diretta, prodotta e interpretata dallo stravagante e misterioso Tommy Wiseau.

    Costato sei milioni di dollari, ne ha incassati 1.800, ma solo perché il suo regista ha dovuto pagare per mantenerlo nelle sale americane almeno due settimane. The Room è il film più brutto della storia del cinema (Entertainment Weekly lo definì “il Quarto Potere dei film brutti”), con la sua trama inesistente, le sue inutili scene sul football, la recitazione da accapponare la pelle e una sceneggiatura che definirla tale fa venire subito da ridere. Ma è diventato un cult, imperdibile, quasi. E forse perché dietro c’era la tenacia, la visione di una persona che non si è voluta arrendere: Tommy Wiseau.
    Poteva passare inosservata questa storia ad un altro outsider come James Franco? Certo che no, quindi l’attore-regista si è subito assicurato i diritti di The Disaster Artist, libro di Greg Sestero (uno dei protagonisti di The Room) in cui vengono raccontate la storia della produzione del film e l’amicizia che legava Sestero a Wiseau.

    Immaginazione e follia al potere: The Room era uno schiaffo a mano piena ad Hollywood nel 2003, The Disaster Artist fa riecheggiare quello schiaffo oggi, quindici anni dopo. La pellicola di Franco racconta la storia di un uomo respinto da Hollywood, di una persona che non ha talento, non conosce il cinema, ma ha una passione enorme (e un enorme conto in banca). Col suo look appariscente, con la sua strana parlata senza articoli e parole trascinate, Wiseau vuole che le persone si accorgano di lui, che lo amino, e quando trova quello che potrebbe diventare il suo grande amico (Sestero, interpretato da Dave Franco), niente e nessuno potrà fermarlo. I fratelli Franco, con le loro meravigliose interpretazioni, ci fanno così conoscere chi, qualche anno fa, ha sfidato la fabbrica dei sogni, incassando, nell’immediato, una sonora sconfitta, ma risultando vincenti nel tempo.

    Il Wiseau di Franco fa sorridere e, contemporaneamente, fa tanta tenerezza: guidato dal suo sogno, nemmeno quando è palese che il suo film è destinato alla catastrofe, si tira indietro. Franco ne apprezza proprio questo lato, anzi, lo esalta: quando, alla prima del film, il pubblico non riesce più a trattenere le risate, le lacrime solcano il viso di Wiseau. Per l’ennesima volta i “villain” gli ridono in faccia, si prendono gioco di lui. E se questo fosse il suo destino? Perché, allora, non capovolgere la situazione? Ecco che quello che doveva essere un film da Oscar – secondo la visione del suo regista – diventa un film volutamente brutto (“Voi ridevate, ma tutto era fatto apposta“, dirà alla fine della proiezione). Quella che doveva essere l’interpretazione di una vita si trasforma in una goliardata tra amici (costata pur sempre 6 milioni di dollari). L’importante è che se ne parli, nel bene o nel male. L’obiettivo è raggiunto. Anche da Franco: il suo The Disaster Artist spoglia Hollywood (e l’american dream di cui ne è uno dei riflessi) delle sue lucine colorate, porta in scena un biopic che si regge benissimo su solide basi e trova il modo di fare della sottile ironia e del sarcasmo senza sconti. Elogio del brutto e, soprattutto, della tenacia di chi ha un sogno e vuole realizzarlo. Tanto da diventare un campione nella subdola arte del “rigirare la frittata”.

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    Figlia mia: la fragilità appartiene agli adulti

    Dopo Vergine Giurata, Laura Bispuri torna al cinema con Figlia mia, in competizione alla sessantottesima edizione del Festival di Berlino. Un dramma sulla maternità, dove la fragilità non è dei più piccoli, ma dei grandi.

    Come tra nni fa, Laura Bispuri è di nuovo l’unica regista italiana a rappresentare il nostro Paese al Festival di Berlino. Lo fa con Figlia mia, il suo secondo lungometraggio in sala dal 22 febbraio. Per questa nuova prova, la Bispuri non rinuncia a quel cinema di confine, che si muove tra il documentario, il neorealismo e la grande attenzione ai suoi personaggi. Ambientato nella Sardegna più aspra, dai colori caldi, quasi accecanti, dove il vento è forte e si può sentire, sulle brulle colline, il rumore del mare, Figlia mia è raccontato attraverso tre punti di vista: quello di Angelica (Alba Rohrwacher, già splendida protagonista di Vergine giurata), di Tina (Valeria Golino) e della piccola Vittoria (Sara Casu).

    Due madri e una figlia, tutte alla ricerca, come la Hana Doda del primo film, di una propria identità. Quella dei suoi 10 anni, sarà un’estate particolare per la piccola Vittoria: scoprirà, infatti, di avere due madri. Ma allora, chi è la bambina? A quale delle due donne appartiene veramente? Da qui parte una ricerca che a dieci anni potrebbe sembrare difficile da affrontare, soprattutto quando i modelli di riferimento sono così diversi tra loro. Angelica è la madre “sporca”, quella che beve troppo, che vive nel degrado, che non fa colazione e nella dispensa ha solo medicine solubili e fagioli in scatola; Tina è la madre “pulita”, che lavora, fa la spesa, organizza feste di compleanno e fa torte a forma di cuore, quella che “lavati i piedi anche in mezzo alle dita, perché è lì che si accumula lo sporco“. Un patto lega le due donne: un cordone ombelicale che oltre a inglobare madre biologica (Angelica) e figlia (Vittoria) cattura anche la madre adottiva (Tina). A Vittoria spetta rompere questo cordone e in suo aiuto arriva la madre per eccellenza: la terra. In questa storia dalle tinte di dramma classico (con tanto di soap opera che unisce Vittoria a Tina), solo una discesa nel mondo dei morti può permettere alla piccola di capire chi è veramente: calarsi nel buco della necropoli e riuscirne è quella metafora di rinascita che alla bambina serviva tanto.

    E così, quello che doveva essere il personaggio più fragile di tutti, ne esce fuori a testa alta: la fragilità non le appartiene, cosa che non si può dire, invece, delle due donne. Tina e Angelica sono due facce di un “amore che non si tocca” (come canta Gianni Bella), due facce contrapposte, tanto distanti tra loro quanto pronte ad incontrarsi. E qui sta la bellezza di questa storia: come due mondi lontani, possano, in qualche modo, avvicinarsi, toccarsi, sorreggersi a vicenda (vedi scena nell’allevamento di pesci e quella finale), sullo sfondo di un territorio arido, a prima vista malevolo, ma trasudante amore (immortalato perfettamente, ancora una volta, dalla fotografia di Vladan Radovic).

    Ma qualcosa delude in questo secondo film della regista romana: l’eccessiva costruzione, l’inadeguatezza delle sue interpreti principali, il simbolismo “già visto”. Figlia mia soffre della classica “ansia da opera seconda”, quella che porta il regista ad essere particolarmente – forse troppo – attento a ciò che vuole raccontare e a come vuole raccontarlo. Questo ricade notevolmente sulle interpretazioni, soprattutto quella della Rohrwacher, molto macchietta e poco reale, a fronte di una Golino troppo “Mamma Roma”. Facile il simbolismo che la Bispuri mette in scena: dalla polvere che si alza da terra, dalla paura del vuoto della piccola Vittoria, dalle grotte preistoriche e dalle necropoli fino alla scena finale dove la bambina diventa “madre” (“Andiamo!”, così incita le due donne), tutto ha un sapore di vecchio cinema autoriale, chiuso in se stesso ed eccessivamente conforme ad un canone estetico superabile.

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    Venezia 74 – Downsizing: Alexander Payne e quell’umanità piccola, piccola

    Il regista di Nebraska firma una satira sociale sul mondo contemporaneo usando il racconto fantascientifico come pretesto. I personaggi di Downsizing si muovono, infatti, in un immaginario mondo rimpicciolito dove si sono rifugiati per evitare l’imminente apocalisse.

    L’Homo Sapiens non è una specie di gran successo”. No, decisamente no, almeno a guardare i protagonisti di Downsizing di Alexander Payne, film d’apertura della 74esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia su una fantomatica miniaturizzazione dell’uomo come soluzione estrema per salvare la vita sul pianeta. Una transizione dal grande al piccolo messa a punto da un gruppo di scienziati norvegesi per salvarsi dal sovrappopolamento, risparmiare spazio e risorse, e raggiungere uno stato di benessere economico altrimenti impossibile. Un minimondo in cui fare molte più cose ma con pochissimo, dove a guidare le migrazioni dal grande al piccolo sarà il miraggio di una vita migliore, ma dove alla fine proprio questa idea di una ‘vita migliore’ risponde all’immagine del consumismo più sfrenato: una villa super lusso, signore abbagliate da diamanti e vasche idromassaggio, montagne di soldi facili, feste a base di sigari cubani e vodka. Ed è per sfuggire ai debiti e al fatto che “le cose non vadano mai come vuole” che Paul Safranek (Matt Damon) convincerà sua moglie ad affrontare quella strana traversata.

    Il regista di Sideways e Nebraska firma un’opera sulla miseria umana, un ritratto satirico che si allunga graffiante per 140 minuti, non tutti utilizzati al meglio a dire il vero: poco più di due ore durante le quali la narrazione cambia spesso focus lasciando per strada tematiche e personaggi e suggerendo un ventaglio infinito di argomentazioni (forse troppe) che rimandano alla contemporaneità di un mondo in continua emergenza ambientale, sociale ed economica.
    Payne mantiene la sua cifra stilistica, l’umorismo che gli è proprio e il sapore dolceamaro del racconto, e con intelligenza e lucido spirito dissacratorio affronta temi enormi come i cambiamenti climatici, l’immigrazione, le contraddizioni del sogno americano. Il contatto tra le comunità dei minuscoli e i giganti del mondo di fuori genera un senso di straniamento e un cortocircuito capace di offrire un ulteriore spunto di riflessione sulla condivisione di questo nostro mondo folle, alterato, consumato, diviso.

    Non è un film perfetto, le direzioni inseguite sono molteplici e poco coese, con una prima parte da favoletta fantascientifica ed una seconda prigioniera di un’improvvisa svolta apocalittica. Ma restano dentro tante domande, tante risposte possibili e l’eccellente prova corale del cast da Matt Damon a Hong Chau, da Kristen Wiig a Christoph Waltz che, nei panni di un trafficante serbo cinico, giullare e gigione, è già un cult. Anche lui parte di questa straordinaria ‘transumanza umana’, seduto lì a guardare il mondo scorrere.

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    Chiamami col tuo nome: come nasce il desiderio

    Luca Guadagnino adatta per il grande schermo l’omonimo romanzo di André Aciman. Chiamami col tuo nome è l’incursione nella passione improvvisa tra due ragazzi nella campagna italiana degli anni Ottanta. Candidato a quattro premi Oscar, tra cui Miglior Film e Miglior Attore Protagonista, il film sarà in sala dal 25 gennaio.

    Qualcosa che va oltre l’amicizia, forse“. Fa attenzione, Guadagnino, a non abusare del termine “amore”. E allora cos’è che lega Elio e Oliver in quella calda estate italiana del 1983? Tra sguardi che si cercano, mani che si sfiorano e subito si allontanano, ripicche e gelosie velate? La curiosità dell’inizio lascia spazio alla freddezza che poi si trasforma in continua ricerca dell’altro, della sua attenzione. Il desiderio si impossessa dell’enorme villa in cui i personaggi si muovono, ha la forma di un tuffo nel fiume, di una pedalata in bicicletta, di una suonata al pianoforte e di uno scatenato ballo durante la festa in paese. Chiamami col tuo nome non ha bisogno di nessun tipo di etichetta, perché Guadagnino fa in modo che queste etichette non trovino la giusta superficie per restare attaccate. Proprio come nel romanzo di Aciman, qui i protagonisti sono il desiderio e la passione, a prescindere da chi li prova.

    E fa bene il regista a non seguire pedissequamente la storia dello scrittore statunitense: forse consapevole che la bellezza di quel romanzo sta proprio nelle immagini evocate dalle parole di Aciman, Guadagnino in qualche occasione devia, inserisce del suo, riuscendo nell’intento di mantenere inalterata l’atmosfera del romanzo. Lo dice a parole sue, insomma, e lo fa con una pellicola elegante e sussurrata, tutto il contrario della passione che racconta. Guadagnino entra improvviso nella vita dei due ragazzi, ce li presenta nell’attimo in cui si incontrano per la prima volta e da lì parte la parabola di un’attrazione giocata nel terreno di un’intimità non tanto fisica (la telecamera inquadra altrove quando i due fanno l’amore e la scena della pesca, molto forte nel romanzo, viene modificata in parte), quanto mentale.

    Pur presente, ma mai ostentata, le fisicità di Oliver e di Elio sono secondarie rispetto all’alchimia che si crea tra loro. In questo, Guadagnino può contare sui suoi splendidi protagonisti: Armie Hammer e Timothée Chalamet (quest’ultimo con una freschissima e meritatissima nomination all’Oscar proprio per il ruolo di Elio) riescono a trovare una strada comune da percorrere insieme, regalando due bellissime interpretazioni e, soprattutto, portando sullo schermo ciò che era relegato alla carta – restandone fedeli. Se i riflettori, come è giusto che sia, sono puntati solo su loro due, non vuol dire che gli altri, i secondari, siano lasciati allo sbaraglio. Primi fra tutti il padre (Michael Stuhlbarg) e la madre (Amira Casar) di Elio che nel finale mostrano con una gran forza i loro ruoli: quel silenzio ricco di intese da una parte (il ritorno in macchina a casa del ragazzo con la madre), quel meraviglioso dialogo “tra le righe” dall’altra (sul divano di casa con il padre).

    Richiamando alla memoria il Bertolucci di Io ballo da sola e il Weekend di Andrew Haigh, Chiamami col tuo nome se ne distacca e segna un passo molto importante della filmografia di Luca Guadagnino, una svolta matura, che ostenta di meno, ma “parla” di più. Soprattutto quando, nel lungo finale – una delle esperienze cinematografiche più belle degli ultimi anni – la sua camera si concentra sul rapporto di Elio con i genitori e più tardi si fissa, per tutta la durata dei titoli di coda, sul volto malinconico del ragazzo (wow!). E proprio qui, dove si dovrebbe creare l’imbarazzo del pubblico che si sente osservato, una volta ancora si è partecipi, ci si immerge negli occhi di Elio e non si può fare altro che riportare alla memoria quanto vis(su)to nelle scene precedenti. L’amore, forse.

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    Corpo e Anima: in sala l’Orso d’Oro di Berlino 2017

    Nella shortlist dei film in corsa per la nomination all’Oscar come Miglior Film Straniero, Corpo e Anima di Ildikò Enyedi approda nelle nostre sale dal 4 gennaio. Tra realtà e sogno, il film, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, mette in scena le difficoltà del rapportarsi agli altri.

    Corpo e anima, terreno e spirituale, sangue e sentimento. La regista ungherese Ildikò Enyedi mette in scena la storia di due persone molto diverse tra loro che, per uno strano scherzo del destino – meglio dire di Morfeo – si trovano a condividere lo stesso sogno. Due meravigliosi cervi si incontrano nella foresta innevata: si cercano, si annusano, condividono le foglie cadute dagli alberi per il loro pasto. Si amano. Nella realtà questo stesso sogno appartiene a Endre e Mària. Entrambi lavorano nello stesso mattatoio, uno ne è il responsabile finanziario, l’altra l’addetta al controllo qualità.
    Se le loro anime, di notte, si incontrano nella poesia del paesaggio innevato (bianco, quindi), è nell’asetticità del mattatoio (bianco anche qui) che i loro corpi, evidentemente attratti, non trovano il giusto terreno per muoversi. Goffa lei, con capelli e pelle talmente chiari da sembrare un fantasma; più estroverso lui, moro e con un braccio paralizzato. Due corpi rigidi, ansiosi, pieni di paure fanno da contraltare a due anime libere. Due corpi che si scrutano senza mai toccarsi sono l’altra faccia della medaglia di due spiriti che si cercano, si annusano, si proteggono l’un l’altro.

    Il corpo come luogo della più forte razionalità e l’anima come quello del sentimentalismo e della poesia più sfrenati: Enyedi porta sullo schermo questa forte dicotomia che, oggi, condiziona il nostro modo di rapportarci agli altri. Lo fa ricorrendo a vari registri anche nella stessa scena, così da un momento drammatico si passa ad uno più leggero, senza uno stacco netto, ma in maniera graduale. Così l’umorismo di Corpo e Anima non è mai fuori luogo e soprattutto porta a dare maggiore enfasi al momento drammatico che segue o precede.

    Intense e impeccabili le prove attoriali di Morcsànyi Géza (Endre) e Alexandra Borbély (Mària): i loro personaggi sembrano essere delineati perfettamente per gran parte del film, poi, ad un certo punto, la virata e ciascuno assume il ruolo che, all’inizio, era dell’altro. Se nel mondo dei sogni le loro anime comunicano, nella realtà, circondati dall’orrore e dal dolore di quegli animali portati a morire, i loro corpi non riescono a toccarsi e si allontanano sempre più. Quando, finalmente, si trovano, però, lo faranno davanti ad un rivolo di sangue che esce copioso, in una situazione ai limiti del grottesco e dell’assurdo e richiamata dall’umorismo di uno schizzo di pomodoro nella scena successiva. Un fiume che ha rotto gli argini; un’anima che è andata oltre il sogno e che ha permesso al corpo di aprirsi all’esterno.

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    Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione: la perdita dell’innocenza

    Continua la saga fantasy inaugurata da Gabriele Salvatores nel 2014. Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione arriva nei nostri cinema il 4 gennaio: tra i problemi dell’adolescenza e la scoperta di nuovi poteri, la pellicola traballa in più di una occasione.

    Michele Silenzi è cresciuto. Lo avevamo lasciato che aveva appena scoperto un nuovo potere, oltre quello dell’invisibilità, e salvato i suoi amici da un’oscura minaccia proveniente dalla Russia. Fisicamente cambiato, caratterialmente più cupo vista l’improvvisa tragedia che lo ha colpito, questa volta il giovane è chiamato a rispondere alla più classica delle domande che si pone quasi sempre nei secondi capitoli dedicati ai supereroi: cosa posso fare con i miei poteri? Sarà l’incontro con i suoi simili e con qualcuno che con lui condivide molto di più dei superpoteri, a fargli capire quale strada intraprendere.

    Se nel primo film abbiamo assistito al passaggio dall’età infantile a quella adolescenziale del suo protagonista, in Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione le cose si fanno più difficili ed è la trasformazione da adolescente ad adulto il tema portante della pellicola. Ma questa seconda generazione di Speciali ha qualcosa che non va. Quando uscì il primo capitolo, un certo respiro di sollievo si alzò nelle sale italiane: finalmente un film del genere si poteva fare anche qui da noi, pur avendo a disposizione un budget che non ha niente a che fare con le produzioni d’oltreoceano dello stesso tipo. Qui questa convinzione e questo orgoglio continuano, ma qualcosa ci impedisce di essere totalmente soddisfatti. La saga ha perso quella sua freschezza, sembra un prodotto come tanti che nemmeno la firma di Gabriele Salvatores rende convincente.

    Due le principali criticità di Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione. La prima è la sceneggiatura, meno attraente della prima, piena di quegli elementi tipici del genere e, onestamente, vista la lunga attesa per questa seconda parte, ci si aspettava qualcosa di più. A seguire, la recitazione: tanto forzata da trasformare qualsiasi battuta in puro artificio e in fonte di risate. La regia sembra divertirsi un po’ di più, sembra godere di una certa libertà che il successo del primo film ha inevitabilmente portato: Salvatores aumenta il ritmo in alcune scene, in altre segue pedissequamente i suoi personaggi, soprattutto i più giovani, quasi a braccarli e a intrappolarli in questo loro processo di crescita. Per fortuna, infine, ci sono gli effetti speciali, decisamente migliori rispetto a quelli del primo film, ma che comunque non bastano ad alzare il livello del risultato finale.
    Accompagnato dall’uscita di una graphic novel e di un romanzo, Il Ragazzo Invisibile – Seconda Generazione mira a fare colpo su un pubblico molto particolare, abituata a vedere prodotti molto più curati e complessi (sotto molti aspetti, non solo visivi). Come reagirà di fronte a qualcosa che tre anni fa era molto accattivante e che oggi ha fatto enormi passi indietro?

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