End of Justice – Nessuno è innocente: L’onere della prova

Denzel Washington è un avvocato al contempo goffo e geniale in End of Justice – Nessuno è innocente, secondo film del regista Dan Gilroy. In sala dal 31 maggio.
Un avvocato fuori dagli schemi alle prese con l’onere di una prova. E qui per prova non ci riferiamo all’elemento di un quadro indiziario ma al significato non-legale del sostantivo, prova come tribolazione, con tutto quello che ne consegue. End of Justice – Nessuno è innocente è un nome forse programmatico, e un pizzico fuorviante, specie considerato che è un titolo “tradotto” (virgolette d’obbligo) dall’originale Roman J. Israel, Esq. Eppure l’ultimo film interpretato da Denzel Washington conferma che la nomination come migliore attore agli ultimi Oscar non è arrivata solo per la logica delle quote e della difese delle minoranze, come pure qualcuno aveva ipotizzato, specie dopo l’esclusione di James Franco sulla scia di un’accusa di molestie. Washington non ha vinto ma ci ha comunque regalato un ottimo personaggio, frutto della penna del regista-sceneggiatore del film, quel Dan Gilroy che qualche anno fa stupì la platea della Festa del Cinema di Roma con Nightcrawler – Lo sciacallo, un thriller a orologeria costruito su un outsider sinistro interpretato allora da Jake Gyllenhaal.
La formula adottata per End of Justice è simile. La sceneggiatura prende le mosse da un personaggio che è quello di Roman J. Israel (Washington), avvocato preparatissimo ma ben lontano dal canone hollywoodiano. Profondo conoscitore del codice penale Roman è infatti relegato al lavoro di consulente d’ufficio vista le sue incapacità relazionali e l’inadeguatezza al dibattito d’aula. Venuto a mancare il suo socio Roman entra nel mondo di George Pierce (Colin Farrell), epitome del successo, avvocato più impegnato a fatturare che a difendere i suoi clienti. Il dissidio interiore è evidente. Un tempo avvocato dei diritti civili Roman ci mette un po’ ad adattarsi alla nuova realtà. Ma quando sembra trovare un equilibrio contravvenendo al suo rigido codice morale l’incontro con l’attivista Maya (Carmen Ejogo) e l’interesse manifestato da George per una riforma del codice penale concepita dallo stesso Roman aprono un varco insperato nel campo di un idealismo che sembrava archiviato nel ricordo un passato più genuino e felice.
Se in Nightcrawler Dan Gilroy voleva raccontare la parabola del male, in End of Justice a finire sotto la lente è invece il bene. Ma se per portare sullo schermo una discesa agli inferi Gilroy ha potuto concedersi il lusso di una narrazione lineare, di un crescendo cadenzato, quando è il bene a finire al centro della scena le regole della tensione drammatica impongono che la storia proceda a strappi e intoppi. E questo finisce per sottolineare il principale limite di questo film, quello di non riuscire ad essere interessante in ogni sua parte. A livello di sceneggiatura Gilroy forza alcuni passaggi per riuscire a portare il suo personaggio dove vuole il lui. E così ogni tanto l’intreccio sembra sfaldarsi di fronte alle esigenze narrative. Ma viene da dire che non è questo il punto. Perché la forza, e probabilmente l’unico grande motivo di interesse del film, è l’innegabile originalità del suo personaggio, avvocato outsider che pare non possa trovare il suo posto nel mondo e poi, quando lo trova, si accorge che probabilmente è il posto sbagliato. Washington, il cui talento continua a spiccare nel panorama della Hollywood moderna nonostante la new wave di talenti afro-americani bussi alle porte, ci regala un’altra prestazione pregevole che varrebbe da sola il prezzo del biglietto. Gilroy ha comunque una mano registica ferma, specie quando un vago elemento thriller vena di nero la struttura di quello che è a tutti gli effetti un film drammatico. End of Justice non è comunque un film completamente riuscito, benché non sia privo di interesse e non solo nel suo personaggio ben concepito, ma anche nel voler rifuggire lo schema narrativo processuale che ci si sarebbe aspettati entrando in sala. Nonostante i dubbi resta tuttavia l’impressione che il film sia la seconda opera di un regista non banale sia con la penna in mano che con la telecamera in spalla.